Compie 70 anni Walter Sabatini, il più originale dei direttori sportivi italiani. Con lui tracciamo un bilancio della sua carriera e della sua vita
Qualche libro notturno, in mezzo a tanto pallone visto alla televisione. Walter Sabatini, il più romanzesco dei direttori sportivi della vicina Penisola, sta trascorrendo i giorni in casa mentre combatte con una salute precaria.
Dopodomani, venerdì 2 maggio, gli anni saranno settanta, ma non è impaziente di compierli. Il telefono continua a squillare, anche se non è ancora arrivata la chiamata giusta per tornare di nuovo in pista, magari da consulente.
Il pallone per Sabatini è una vera ossessione. Calciatore negli anni Settanta (esordio tra i professionisti con la maglia del Perugia) e per parte del decennio successivo. Qualche stagione da allenatore, soprattutto nelle giovanili, e poi l’inizio della carriera da direttore sportivo. Lazio, Palermo, Roma, Inter e Salernitana sono soltanto alcuni dei molti club per i quali ha saputo, tra una sigaretta e una frase a effetto, costruire ottime squadre e scoprire calciatori di grande talento.
Direttore, vede ancora tanto pallone?
Le giornate mi sembrano sempre troppo corte, guardo tutte le partite che posso, live o registrate. Non potrei fare altrimenti. Mi diverto molto, dal calcio mi aspetto ogni volta cose straordinarie. Riesco ancora a sorprendermi, a provare gioia ed emozione.
Cosa guarda in una partita?
Guardo soprattutto il gesto del calciatore. Il calcio lo fanno i giocatori, anche se gli allenatori contribuiscono enormemente con tattiche e strategie. Un calciatore arriva sul pallone, lo doma, lo guida e lo mette nel corridoio davanti a lui: certo, io ho un forte senso estetico, ma un’azione bella la vedono tutti, non solo i professionisti del settore.
Basta questo per riconoscere un bravo giocatore?
Il calciatore lo vedi subito, sennò è quello sbagliato. Se va visto quattro volte, vuol dire che non è buono. Uno forte ti stupisce all’istante.
Esiste anche il talent scout di allenatori?
Sì, ma è meno codificato. Gli allenatori bravi si fanno notare quando lavorano bene sul campo durante la settimana. Quando guardi una partita, vedi se una squadra ha dietro un mister di valore oppure uno superficiale.
Ha mai visto un suo allenatore fare cose calcisticamente rivoluzionarie?
Luis Enrique era giovane quando arrivò alla Roma, ma subito ha imposto qualcosa di inconsueto, un possesso palla che presupponeva il movimento di tutti i giocatori. Daniele De Rossi ne era sbalordito ed estasiato. La squadra non era abituata a quel tipo di allenamento, tutto effettuato con la palla. L’obiettivo era giocare in superiorità numerica, recuperando la sfera il prima possibile. Un autentico rivoluzionario: portò idee nuove nel calcio italiano. È andato via presto dall’Italia perché è un uomo molto orgoglioso e aveva sentito venire meno il rispetto. Definirei Luis Enrique un progressista coraggioso, uno che non ha paura del nuovo. E guardate cos’ha poi vinto, andando via da Roma.
Lei invece non aveva il carattere per allenare, nonostante i tentativi iniziali?
Mi mancava l’attenzione per il dettaglio. Da direttore serve una visione più generale, o comunque ci si concentra su altri tipi di dettagli. Comunque poi il mio lavoro è stato per molti anni un grandissimo divertimento.
Come giudica invece la sua carriera da calciatore?
Cambiavo società ogni volta che finiva una stagione, litigavo sempre e lasciavo dietro di me solo macerie.
Come vivrà la cifra tonda anagrafica che sta per raggiungere?
Non sarò felice quel giorno, e spero arrivino pochi auguri. Mi sento ancora in gioco, guardo calcio in continuazione e mai distrattamente. Direi che lo faccio in maniera scientifica: i calciatori, i loro movimenti e le loro reazioni emotive. Sono pronto per una nuova avventura.
Fuori dal campo, si è fissato degli obiettivi da conquistare?
Sarebbe il momento di perdonarmi e vivere più serenamente. Io ho sempre vissuto nel senso di colpa e non so nemmeno il perché. Tutte le sere mi processo. L’inquietudine me la porterò con me fino alla fine dei miei giorni. Non sono mai riuscito a vivere con distacco. Non auguro a nessuno questo sentimento.
Il rapporto con le sigarette?
Provo simpatia per chi ha fatto il tragico errore di diventare un fumatore. Per esempio, mi sarebbe piaciuto lavorare con Sarri. Oggi però rimprovero Tony D’Amico dell’Atalanta che si fa sessanta sigarette al giorno. Io ho un problema di salute serio, un’insufficienza respiratoria che mi ha portato vicino alla morte: venti giorni trascorsi in un coma pieno dei peggiori incubi.
Ha avuto paura in quei momenti?
Avevo il timore di aver lasciato qualcosa in sospeso con mia moglie, con mio figlio Santiago e con le persone care, mi sembrava di tradirli. E quel timore è ancora lì, dentro di me.
Nel suo libro autobiografico ‘Il mio calcio furioso e solitario’ ha citato Pier Paolo Pasolini...
Ancora non sopporto la sua morte. Quella di un intellettuale critico, attivo, presente nella vita delle persone comuni, un poeta che ha reso la vita degli altri migliore. Ricordo perfettamente quel giorno del 1975, facevo il calciatore allora, stavo camminando il mattino presto quando in edicola ho letto Ucciso Pasolini. Non potevo crederci, pensavo fosse immortale. Avevo provato lo stesso sentimento anche per la scomparsa di Gigi Meroni qualche anno prima, ma nella misteriosa dipartita di Pasolini c’è stato ancora più dolore.
Lei è stato un giovane calciatore con una sensibilità diversa rispetto ai compagni dell’epoca...
Sì, soprattutto grazie a Paolo Sollier, che è arrivato a giocare a Perugia quando io avevo 19 anni. Mi ha fatto capire che c’era altro oltre la vita del calciatore. Lui era impegnato politicamente e con idee diverse rispetto a quelle correnti. Mi ha insegnato a pensare con la mia testa. Paolo mi fece scoprire Gabriel García Márquez, io avevo consumato già molta letteratura, ma da quel momento leggere è stata una necessità.
In questo momento cos’ha sul comodino?
Di libri ne ho sempre almeno cinque. Mia moglie, che è una donna molto ordinata, me li sposta di continuo, io però ho la necessità di averli vicino, se mi sveglio di notte. Ho appena riletto di Mario Puzo, grande scrittore, ‘I folli muoiono’, un romanzo poderoso su un gruppo di giocatori d’azzardo incalliti, a Las Vegas. Uno dei protagonisti realizza il sogno di una vita, cioè quello di vincere una cifra folle, ma quando torna in albergo stende tutte le banconote in camera e poi si uccide. Mi ha fatto riflettere su quanti modi diversi di agire abbia la psiche.
Quale trasferta le manca di più?
Sono un amante dell’America Latina, ho il rammarico di non poter tornare in Argentina: mia moglie e i medici me lo proibiscono. Il volo sarebbe troppo impegnativo. Non prendo più neanche un treno Roma-Milano. C’è stato invece un tempo in cui, per un anno intero, sono andato in Cina almeno una volta al mese: quattordici ore di volo con sette ore di scalo a Hong Kong. Oggi l’Argentina mi manca moltissimo.
Come mai ha questo legame così forte con la terra di Messi e Maradona?
Per via della gente. E ovviamente per il fútbol, per come viene giocato e per come viene vissuto laggiù. Mi piaceva andarci sia in estate che durante l’inverno, specialmente a Buenos Aires e a Rosario. L’Argentina l’ho sentita subito come la mia patria, seppur indebitamente, perché io sono spudoratamente italiano e spudoratamente umbro. In Argentina il calcio è un’ossessione, lo trovi dappertutto, per le strade c’è ancora. Il calcio è lo sport più immediato che si conosca, perché è figlio della povertà.
Quindi un Paese ricco non può esprimere campioni?
No, non può. I bambini – e oggi anche le bambine – se li lasci soli, si arrangiano a giocare, trovando gli spazi e sperimentando tutto il resto. Basterebbe soltanto che fossero controllati da istruttori che non siano allenatori, ma soltanto compagni di gioco.
Non sembra essere un fan delle scuole calcio...
Se uno va a vedere oggi una scuola calcio, capisce immediatamente che da quei posti non potrà mai uscire nessun campione.