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‘L’anno che verrà’, per raccontarti quest’impresa

Il brano di Lucio Dalla a fare da colonna sonora a un trofeo che a Bologna mancava da oltre mezzo secolo

Un trofeo atteso oltre cinquant’anni
(Keystone)
17 maggio 2025
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Bologna si è riversata per le strade, indossando i colori della squadra e cantando il proprio amore. Anche se il Comune non aveva organizzato nessuna festa, le persone avevano voglia di stare assieme. Così hanno sfilato cercando di riconoscere la propria gioia in quella altrui. Hanno passeggiato per le strade di questa città medievale, grassa e dotta, con una delle più importanti università italiane, e al centro delle manie enogastronomiche in cui sta annegando l’Italia. Con le sciarpe strette al collo hanno guardato i fuochi d’artificio rossi e blu sopra la torre della Garisenda, cercando di capire che forma doveva avere questa gioia che non avevano mai provato: quella legata alla vittoria di un trofeo. Nel frattempo si sono riconosciuti come una comunità.


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Match-winner

Prima della partita i tifosi avevano colorato le strade di Roma, e poi la Curva Nord dello Stadio Olimpico. Avevano steso una coreografia con disegnati vecchi giocatori e sotto scritto il motto che accompagnava l’ultimo Bologna campione d’Italia: «Oggi come allora… Così si gioca solo in Paradiso». Il tentativo quindi di ricucire una storia spezzata, quella di un Bologna vincente che si sono sentiti solo raccontare.

Il Bologna ha vinto il suo primo trofeo 51 anni dopo la Coppa Italia del 1974, e quindi molte delle persone che erano a festeggiare all’Olimpico, cantando “L’anno che verrà” di Lucio Dalla, o per le strade della città, non avevano mai visto la propria squadra vincere un trofeo. È il destino di molte squadre italiane che sono state grandi in passato e che oggi vivono nel riflesso di quella gloria perduta: il Torino, il Genoa, la Fiorentina. Ritornare grandi, ricostruire un patrimonio competitivo, è un’impresa complicata che non è riuscita a nessuno o quasi. Il Bologna ci sta provando ed è forse la squadra che ci sta andando più vicina a riuscirci. La Coppa Italia ha un valore relativo per tutti, visto che è un torneo dal formato discutibile, ma ne ha uno grande per un club come il Bologna, che aveva bisogno di tracciare la strada, dare una forma brillante della strada virtuosa cominciata un po’ di tempo fa. Negli spogliatoi, prima della partita, Vincenzo Italiano ha caricato la squadra dicendole che quella finale sarebbe stata il coronamento di un percorso iniziato alcuni anni prima. Di che percorso stiamo parlando?

Anche dodici mesi fa le persone erano a festeggiare nelle strade di Bologna ma l’umore era diverso. Si festeggiava la prima qualificazione in Champions League della squadra, le edicole hanno mantenuto affisse per mesi le prime pagine sportive di quel giorno mentre i negozi della città avevano aderito all’iniziativa “Vetrine bolognesi”, esponendo cimeli, sciarpe e bandiere del Bfc. C’era però un vago senso di amarezza a sporcare quella felicità. La squadra avrebbe giocato in Europa, ma con chi? L’allenatore Thiago Motta, ritenuto il principale artefice di quella impresa, era promesso sposo della Juventus e i due giocatori più talentuosi della squadra, Riccardo Calafiori e Joshua Zirkzee, erano già con un piede fuori dal club. Il Bologna sembrava solo una tappa di passaggio e quella qualificazione un fatto episodico: quanto ci avrebbe messo il club a ricostruire quanto stava perdendo in quell’estate? Il Bologna di Saputo per anni aveva occupato le posizioni tra il quindicesimo e il nono posto: senza mai rischiare davvero di retrocedere, ma senza nemmeno raggiungere il sogno che tutti i bolognese sognavano: tornare finalmente a giocare in Europa; che significa poter andare in trasferta, attraversare il mondo sventolando con orgoglio i propri colori.

Oggi che i giocatori del Bologna accarezzano la coppa e i tifosi festeggiano, suonano ridicole quelle preoccupazioni. Suonano piccole e lontane, dopo la vittoria nella finale contro il Milan, in una partita ruvida e decisa da un gol dello svizzero Dan Ndoye, che poi ha pianto guardando la curva in lacrime. Una partita che ha sancito, tra le altre cose, la seconda qualificazione europea consecutiva. Intanto in Europa League, e poi ci sono ancora due partite di campionato per provare a tornare in Champions.


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Mister Vincenzo Italiano

Non c’è niente di scontato in questo percorso, cominciando quando nel 2015 il canadese Joey Saputo ha rilevato le quote dall’americano Joe Tacopina. Da quel momento la forza del Bologna non dipende tanto dai singoli individui: è una catena di lavoro virtuosa, che trova idee brillanti anche senza molti soldi. Oggi il Bologna ha solo l’undicesimo monte ingaggi della Serie A ma lotta per una qualificazione in Champions League contro squadre con mezzi e risorse superiori. Allora la prima persona a cui bisogna pensare, per raccontare questo progetto, è l’allenatore Vincenzo Italiano.

Mercoledì Italiano ha vinto il suo primo trofeo dopo essersi fermato tre volte in finale quando allenava la Fiorentina. Due volte in Conference League e una volta in Coppa Italia. Aveva addosso quell’aria sfigata da perdente di successo e in estate il suo passaggio al Bologna non sembrava certo una promozione. Certo, avrebbe allenato in Champions League, ma nessuna squadra ‘prestigiosa’ aveva puntato su di lui, pure in un’estate di grandi giri di panchine. Il Bologna ha fatto fatica nei primi mesi a metabolizzare il gioco di un allenatore dai principi molto diversi da quelli di Thiago Motta; ma poi si è consolidata in una forma meno brillante di quella dello scorso anno, ma allo stesso modo solida. Il Bologna di Motta era un’eccellenza difensiva, e lo è anche quello di Italiano, anche se con principi diversi. Se il Bologna dello scorso anno si difendeva spesso col pallone e amava gestire i ritmi della partita, in questa stagione è diventata una squadra più diretta e verticale, intensa e brutale nel pressing. Non è una squadra per palati raffinati. Due dati per capirci: il Bologna è seconda per possesso palla medio in Serie A, ma è anche quarta per falli fatti, e penultima per cartellini gialli presi. È una squadra che tiene il pallone, che vuole riconquistarlo in fretta, e che gioca duro, nelle zone grigie tra il fallo e il non fallo. Il Bologna usa tanto l’arma del lancio lungo, appoggiandosi alle protezioni spalle alla porta di un centravanti torre spostato trequartista, Jens Odgaard. Rispetto allo scorso anno non hanno brillato talenti tecnici (Zirkzee, Calafiori) ma giocatori difensivi solidi come i centrali Lucumi e Beukema, il terzino crossatore Juan Miranda (6 assist stagionali), il talento realizzativo di Riccardo Orsolini, il miglioratissimo Dan Ndoye e l’intelligente e sottovalutato Remo Freuler. La squadra ha faticato a fare punti in Champions League, ma ha offerto prestazioni sempre all’altezza e, anche secondo le parole del suo allenatore, quelle partite sono servite per crescere e imparare cose nuove. Nel 2025 il rendimento della squadra è decollato, soprattutto nelle partite casalinghe. Il Bologna è primo per punti fatti in casa nel girone di ritorno.


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I fuochi d’artificio sopra la torre della Garisenda

Orsolini è in particolare il giocatore simbolo di questo Bologna, per la sua sguaiata simpatia, il suo carisma, e anche per aver fatto una stagione da 15 reti stagionali proprio quando nessuno si aspettava molto da lui. Gol spesso pesanti e decisivi, arrivati soprattutto dopo che Luciano Spalletti lo ha escluso dalle convocazioni in Nazionale.

L’altro grande artefice del successo del Bologna è un uomo che parla poco ma che fa molto, ovvero Giovanni Sartori, direttore sportivo che in Italia si è specializzato nell’arte più complicata: far scalare le gerarchie ai club in cui lavora. Ha cominciato nel 1992 nel Chievo Verona: una piccola squadra di quartiere portata dalla Serie C alla Serie A; ha proseguito con l’Atalanta, portata dalla Serie B alla qualificazione in Champions League e ci è poi riuscito oggi nel Bologna. Il metodo di Sartori non è molto pubblicizzato, ma è riconoscibile: acquistare giocatori forti fisicamente, capaci di portare in campo un’intensità spesso fuori scala in un campionato atleticamente compassato e cerebrale come quello italiano. Dopodiché: lavorare insieme all’allenatore, rispettando i suoi principi. Lo ha fatto al Chievo Verona, costruendo un 4-4-2 devastante sugli esterni per il gioco di Luigi Delneri; lo ha fatto all’Atalanta, prendendo prodigi atletici per il 3-4-3 asfissiante di Gasperini; lo sta facendo al Bologna, con profili intelligenti e dinamici. Anche per Sartori, però, questa esperienza sembra diversa. Pur parlando poco e niente, prima della finale è andato ai microfoni e si è commosso, raccontando che il Bologna era la squadra di suo papà.

C’è qualcosa di magico attorno a questa squadra, in effetti. Un entusiasmo contagioso che nasce dal rapporto unico che si è creato tra club, giocatori e tifosi. Da due anni la città di Bologna sembra respirare all’unisono con la sua squadra di calcio. Prima della finale Vincenzo Italiano è stato ospite da Sergio Mattarella al Quirinale e ha tenuto un discorso ricco di significati. Era lì – ha dichiarato – per testimoniare l’entusiasmo con cui la città stava vivendo quella finale, e che il calcio è un generatore di emozioni e memorie condivise. E lo è al di là dei risultati e dei trofei. Ha sottolineato che è questo il contributo più grande che lo sport offre al paese.

Quelle emozioni e quelle memorie condivise sarebbero esistite anche perdendo la finale contro il Milan, mercoledì, ma vincendola il Bologna è entrato nell’albo d’oro mezzo secolo dopo l’ultima volta, e questo qualcosa deve pur significare. I tifosi allo stadio hanno visto i rossoblù sollevare un trofeo, hanno ammirato un Bologna vincente, e in questo più somigliante al Bologna dei loro padri e dei loro nonni.