Cade domani il 40esimo anniversario della strage di Bruxelles, che fece 39 morti. La ricordiamo insieme a un ticinese che di quella tragedia fu testimone
«Col mio amico Michele Codoni di Mendrisio, innamorato dell’Inghilterra in generale ma soprattutto – come me – del calcio inglese, fra gli anni settanta e il decennio successivo siamo andati a vedere tutte le finali di Coppa dei campioni giocate dalle squadre d’Oltremanica, il che significa che ne abbiamo mancate davvero pochissime, dato che in quell’epoca era la normalità che a trionfare fossero proprio le formazioni che venivano da lassù».
Parole di Renato Piffaretti, classe 1952, chiassese doc, che il 29 maggio 1985, vale a dire quarant’anni fa proprio domani, data la sua passione si ritrovò inevitabilmente sugli spalti dello Stadio Heysel per seguire l’atto conclusivo della coppa più importante fra Juventus e Liverpool, quando si consumò la serata più tragica della storia del calcio europeo, una mattanza che, alla fine, fece 39 morti (38 italiani) e quasi 600 feriti. Colpa dell’hooliganismo e della scellerata scelta di organizzare l’evento in un impianto vetusto del tutto inadeguato, oltre che della gestione men che dilettantesca del servizio d’ordine.
«Che ci fosse un’atmosfera molto tesa e diversa da tutte le altre volte – continua il Piff – l’avevamo capito in realtà già abbastanza in anticipo: appena scesi dalla metropolitana con cui dal centro di Bruxelles ci siamo spostati allo stadio, una linea non interrata, abbiamo visto gruppi delle due tifoserie che si scontravano, volavano botte da orbi, c’era un sacco di gente insanguinata».
Del resto, era già quasi una decina d’anni che le frange più violente del tifo britannico, in occasione delle trasferte di coppa, spesso seminavano il panico e devastavano le città continentali in cui calavano. E, siccome il fenomeno dell’hooliganismo col passare degli anni aveva trovato terreno fertile specialmente in Italia, evidentemente quella volta in Belgio gli inglesi avevano trovato pane per i propri denti.
«In realtà anche l’anno prima, a Roma, quando la finale l’avevano giocata la Roma e lo stesso Liverpool, c’erano state violenze varie e diversi accoltellamenti. E anche noi due, io e Michele, avevamo corso qualche rischio. Usciti dall’Olimpico dopo la sconfitta dei padroni di casa, lui – saggiamente – si era tolto la sciarpa del Liverpool e l’aveva messa nello zainetto, mentre io invece me l’ero tenuta al collo, e così un gruppetto di tifosi giallorossi voleva darmi una ripassata. Per fortuna, con prontezza, dissi che la sciarpa l’avevo appena scambiata con alcuni inglesi, e dunque riuscimmo a cavarcela».
Sta di fatto che, come detto, all’Heysel quella sera di 40 anni fa si era subito capito che tirava una brutta aria… «Noi, per fortuna, avevamo biglietti di tribuna. Appena raggiunti i nostri posti, con un certo anticipo come ci piaceva fare, vedemmo una curva dell’Heysel interamente occupata da tifosi juventini, mentre l’altra era stata divisa a metà fra sostenitori bianconeri e fan del Liverpool. Ciò che stupiva era che, mentre nel settore degli italiani c’erano molti spazi vuoti, gli inglesi nella loro zona erano stipati come sardine. E così, a un certo punto, alcuni di loro hanno cominciato a scavalcare la barriera e a occupare parti del settore nemico».
Si trattava, in realtà, di una esilissima separazione del tutto inefficace, poco più di una rete da pollaio che avrebbe però dovuto separare tranquilli gruppi di famiglie (gli italiani) da orde di teppisti ubriachi e scatenati (gli inglesi). Quel settore juventino – la tristemente celebre curva Z – nelle intenzioni degli organizzatori avrebbe infatti dovuto essere occupato da spettatori neutrali, in teoria belgi, senza immaginare che poi i biglietti per quella zona sarebbero in realtà stati rivenduti in Italia a tifosi non organizzati, formati appunto per lo più da piccoli nuclei familiari e semplici appassionati per nulla preparati alla guerriglia. I veri ultrà bianconeri, infatti, erano stati sistemati all’estremità opposta dello stadio, nell’altra curva, 150 metri più in là.
Trovatisi a contatto coi vandali – che all’ingresso erano stati perquisiti ma che poi sugli spalti di quell’impianto fatiscente trovarono ciottoli e calcinacci in abbondanza provenienti dai gradoni che si sgretolavano soltanto soffiandoci sopra – quei malcapitati tifosi italiani per nulla abituati a subire cariche e sassaiole e a rispondere per le rime, non riuscirono a fare di meglio che indietreggiare presi dal panico, finendo per ammassarsi verso il muro di contenimento laterale della curva, col risultato che molti vennero calpestati, e alcune persone – le prime – morirono schiacciate e soffocate da coloro che, presi dal panico, continuavano a premere in cerca di una via di fuga. Diverse altre, invece, perirono o si ferirono gravemente quando il muro cedette e a decine – o forse a centinaia – precipitarono per qualche metro. Erano da poco passate le 19.30, mancavano cioè tre quarti d’ora all’orario previsto per l’inizio del match.
«Noi per la verità nemmeno ci siamo accorti del crollo della parete – ricorda Renato – ma capimmo subito che doveva esser successo qualcosa perché a un certo punto cominciammo a sentire alcune sirene, pensammo così che fuori dallo stadio le tifoserie si stessero scontrando in maniera ancora più seria, e che dunque si trattasse più che altro di sirene della polizia o dei reparti speciali».
Sta di fatto che, ormai, un sacco di gente – chi per mettersi in salvo e chi per continuare la azioni di guerriglia – nel frattempo aveva scavalcato la rete che divideva la curva dalla pista di atletica, rimasta nel frattempo del tutto priva di agenti, perché quei cinque o sei poliziotti che avrebbero dovuto presidiarla – defecandosi nei pantaloni vedendo la brutta piega che la situazione aveva preso – avevano pensato bene di svignarsela. E così, ben presto, anche il terreno di gioco fu invaso. Da una parte c’erano gli hooligan inglesi e dall’altra – provenienti dalla curva opposta – le frange più violente dei tifosi juventini, che a loro volta avevano abbandonato le proprie postazioni per andare ‘a far giustizia’ per quanto accaduto in precedenza all’altra estremità dello stadio.
«Intanto il tempo passava – racconta il Piff – e regnava una confusione pazzesca. Era difficile immaginare, a quel punto, che la partita si sarebbe potuta giocare. D’altra parte, non veniva fornita nessuna comunicazione ufficiale. E così, a un certo punto, io e Michele decidemmo di scendere dalla tribuna e uscire, per fumare una sigaretta e magari ricavare qualche informazione supplementare. Erano ormai le nove di sera. A un certo momento, è passata vicino a noi un’infermiera piuttosto trafelata e le abbiamo chiesto se per caso c’erano dei feriti. E lei ci rispose: Vous dîtes des blessés, messieurs? Y a déjà au moins une vingtaine de morts! A quel punto, ormai convinti al 100% che la finale non si sarebbe disputata, siamo tornati in tribuna per recuperare le nostre giacche, intenzionati a rientrare immediatamente in albergo. Ma, appena abbiamo raggiunto di nuovo i nostri posti, abbiamo visto che il terreno di gioco era stato sgombrato, le squadre stavano entrando in campo, e dunque restammo lì, come tutti, a guardare una partita folle in un’atmosfera sempre più irreale».
Si seppe in seguito che, dopo una lunghissima riunione per decidere il da farsi tenuta in un salone dello stadio, le autorità belghe imposero alla Uefa di ordinare che l’incontro si giocasse – per evitare conseguenze ancora peggiori, dissero – e così i dirigenti di Liverpool e Juventus si videro costretti a mandare in campo i giocatori, che non poterono fare altro che obbedire. I calciatori juventini avrebbero però almeno potuto scegliere di non esultare per l’assegnazione di un rigore clamorosamente regalato, per il gol che ne derivò e – alla fine – per la conquista di una coppa insanguinata, con cui fecero il giro del campo gioendo sfrenatamente e senza vergogna, come se, soltanto pochi minuti prima, non fosse successo niente. Avrebbero dovuto e potuto evitare di farlo, invece scelsero di dare sfogo alla loro danza macabra. Una macchia sul loro curriculum che non potrà mai essere cancellata, e ve lo sta dicendo un ‘gobbo’.
«Dopo la partita – conclude il proprio racconto Renato Piffaretti –, tornati in centro a Bruxelles in cerca di un bar o un ristorante in cui mangiare qualcosa e finalmente avere notizie più precise su quanto successo, trovammo tutto chiuso, serrande abbassate, luci spente ovunque, lo scenario era da film apocalittico. E fu soltanto il giorno seguente, trovata una Gazzetta dello Sport, che venimmo a sapere tutti i dettagli di quel che era capitato attorno a noi senza che ci rendessimo conto delle reale gravità della situazione. E per una manciata d’anni, a causa del conseguente bando continentale delle squadre inglesi, a vedere la finale di Coppacampioni non ci andammo più. Riprendemmo a farlo per il Milan di Sacchi, quando batté la Steaua Bucarest a Barcellona nell’89 e, l’anno dopo, il Benfica a Vienna».