Nella squadra francese finalmente laureatasi campione d’Europa c’è tutto il carattere del suo allenatore, capace di reagire anche al dramma peggiore
«Se vinciamo il sorteggio», avrà detto il mister ai propri giocatori un attimo prima di uscire dagli spogliatoi, «scegliete la palla, e poi sparate subito una sassata in fallo laterale, all’altezza della loro area. Voglio rubargli subito quaranta metri e vedere quanto si cagano addosso». E agli avversari, davanti al calcio d’inizio più audace della storia del football, davvero lo sfintere ha cominciato a cedere.
L’allenatore in questione è Luis Enrique, fresco vincitore della Coppacampioni alla guida del Psg, mentre la rivale incontinente è ovviamente l’Inter, giunta in Germania munita dei favori del pronostico ma sprovvista di garra, idee e fiato. In quel modo così estemporaneo di iniziare la partita più importante della storia del club che gli paga lo stipendio, c’è innegabilmente molto del carattere del cinquantacinquenne asturiano: esigente, geniale, impavido e autentico hombre vertical.
Luis Enrique arrivò al Paris Saint-Germain nel 2023, in corrispondenza dell’addio al club di gente come Messi e Neymar, e l’anno seguente, cioè la scorsa estate, si vide privare pure di Kylian Mbappé, emigrato al Real Madrid per – ironia della sorte – finalmente vincere qualcosa di veramente importante. C’erano insomma tutte le premesse per andare incontro a un fallimento quasi certo, a un lungo periodo di transizione e ricostruzione, e invece stava per aprirsi la stagione più gloriosa della storia del club, culminata l’altroieri sera a Monaco di Baviera con la conquista della Champions League, il trofeo più importante in assoluto, quello per cui la società francese, negli ultimi 14 anni, aveva speso – invano – un numero incalcolabile di fantastiliardi di petrodollari.
Lo spagnolo, contro ogni previsione, è dunque riuscito nell’impresa sfuggita a tutti i suo predecessori sulla panchina al contempo più ambita e più spaventosa dell’intera Europa. Anelata – naturalmente – per i contratti principeschi destinati a chi vi posa le terga. E temuta, altrettanto ovviamente, perché nessun allenatore passato di lì era mai riuscito a compiere la missione per cui era stato assunto, e cioè, come detto, la vittoria nella Coppa dalle grandi orecchie.
Prima di lui ci avevano provato – nell’ordine – Carlo Ancelotti, Laurent Blanc, Unai Emery, Thomas Tuchel, Mauricio Pochettino e Christophe Galtier. E tutti, malgrado disponessero di rose formate dai migliori giocatori che si potessero trovare sul mercato, avevano miseramente fallito. Certo, il campionato francese l’avevano vinto – non sempre in realtà – e anche qualche coppetta nazionale in bacheca ce l’avevano pur infilata, ma al cospetto del bersaglio grosso avevano tutti smarrito mira e sangue freddo. Don Luis, invece, ce l’ha fatta, e vi è riuscito senza poter contare come detto su Mbappé, Lavezzi, Verratti, Ibrahimovic, Thiago Silva, Neymar (costato da solo la bellezza di 220 milionazzi), Beckham, Cavani, David Luiz, Di María, Buffon, Icardi, Sergio Ramos, né tantomeno su Lionel Messi, com’era capitato invece a chi l’aveva preceduto al Parc des Princes.
Chiamato sotto la Tour Eiffel nel 2023, ‘Lucho’ si vide affidare un compito, come detto, all’apparenza impossibile. Scottato e deluso per aver gettato alle ortiche somme di denaro difficili anche solo da immaginare, Nasser Ghanim Tubir Al-Khelaïfi – che gestisce l’inesauribile fondo sovrano denominato Qatar Investment Authority – lo aveva informato del cambiamento di paradigma: il nostro obiettivo resta sempre quello, cioè la Champions che tu hai già vinto una volta alla guida del Barcellona, ma invece di perseguirlo assicurandoci i servigi dei supposti migliori giocatori del mondo, lo faremo tramite un nuovo progetto, vale a dire puntando su talenti giovani e prodotti in casa, nel nostro vivaio.
E lui, che da allenatore della Nazionale spagnola era reduce dalla scottante eliminazione agli ottavi di finale del Mondiale per mano del sorprendente Marocco poi classificatosi quarto – che gli aveva fatto piovere addosso numerose e immeritate feroci critiche –, il progetto parigino lo aveva sposato subito alla sua maniera, con entusiasmo, dedizione, metodo, studio e conoscenza approfondita dei molti semisconosciuti giocatori messigli a disposizione. E nel giro di due stagioni, come abbiamo visto, si è issato sul tetto d’Europa a capo di un manipolo di ragazzini, alcuni dei quali appena maggiorenni, che in lui hanno dimostrato di avere fiducia cieca e che da lui hanno imparato moltissimo.
Il Paris Saint-Germain che sabato ha ammutolito e umiliato l’Inter di Simone Inzaghi rifilandole cinque pere senza alcuna attenuante è infatti una squadra giovanissima, quella con l’età media più bassa in assoluto fra quelle giunte alla finale di Champions League, almeno nel corso degli ultimi venticinque anni.
Désiré ‘nomen omen’ Doué – votato miglior giovane del torneo – l’altroieri ha fornito per esempio un assist e segnato due delle cinque reti parigine, e compirà vent’anni soltanto domani (15 gol e 16 assist in stagione in 54 presenze). Senny Mayulu, autore del quinto gol all’Inter, è un prodotto del vivaio ed è invece addirittura un classe 2006. Allevato in casa e nato 19 anni fa è pure Warren Zaïre-Emery, capace di esordire in prima squadra ben tre anni fa. Senza ovviamente dimenticare Bradley Barcola, sbarcato sulla Senna proveniente dal Lione nel 2023, quand’era solo ventenne (21 reti e 19 assist quest’anno in 58 partite). E giovani come l’acqua, infine – roba da far sembrar vecchio il 26enne Donnarumma – sono pure João Neves (20 anni), Nuno Mendes (22) e Willian Pacho (23), altri elementi plasmati a proprio piacere da Luis Enrique, che è capace di cavare il meglio da ogni ragazzo che dimostri buona volontà, oltre che dedizione e piedi buoni.
Nessun dubbio, dunque, che a Parigi le cose siano ben diverse rispetto a quanto accadeva nelle scorse stagioni, quando molto spesso a vestire la maglia rossoblù erano vecchie star strapagate e probabilmente già piuttosto appagate, oltre che in qualche caso pure usurate.
Mondiale 1994, ultimi scampoli del quarto di finale fra Italia e Spagna. Su un traversone di Goikoetxea, Luis Enrique a centro area si fionda verso il pallone che potrebbe regalare il 2-2 alle Furie Rosse. A Tassotti, nell’occasione lentissimo, non resta che fermarlo con una gomitata assassina; gli spappola naso e labbro superiore. Il rigore sarebbe netto, ma il magiaro Puhl fa finta di nulla e, addirittura redarguisce il povero asturiano quando osa far valere le proprie ragioni. Poco dopo fischia la fine, e la Spagna è ingiustamente eliminata.
L’immagine di Luis Enrique sanguinante e dolente – ma capace di rialzarsi per combattere contro ingiustizie e malasorte – diventerà l’emblema del suo carattere e delle tragedie ben più gravi che il destino deciderà di mettere sul suo cammino.
Capacità di reagire perfino ai colpi più duri: ecco infatti cosa distingue Luis Enrique Martinez Garcia, allenatore a cui tutti da sempre riconoscono lealtà, coraggio e attributi. Oltre, ovvio, a sapienza tecnica e tattica, doti che mostrava già in campo, prima di sedere in panchina. Capace di giostrare sia sulla fascia sia più accentrato, l’asturiano è stato fra i centrocampisti più prolifici del calcio iberico.
Ma il suo contributo non si limitava soltanto ai gol realizzati. Grinta, polmoni, piedi raffinati e leadership ne facevano infatti un punto di riferimento indiscutibile a Gijon come al Real, al Barça come in Nazionale.
In maglia Sporting debutta diciannovenne contro il Malaga, i biancorossi soccombono in casa 1-0, ma il pubblico del Molinon, lo stadio più vecchio di Spagna, riconosce subito nell’esordiente il caudillo che aspettava da anni. Ma la gioia dei tifosi dura poco: davanti alle offerte del Real Madrid è difficile non vacillare, sia per il ragazzo sia per i dirigenti, che danno il benestare al trasferimento.
È il 1991, sulla panca delle Merengues c’è lo jugoslavo Antic, che purtroppo schiera Luis Enrique fuori ruolo. A fine stagione, ai madridisti senza titoli non resterà che ammirare invidiosi i trionfi del Barça di Cruijff, che vince la Liga ma soprattutto la prima Coppa dei campioni della sua storia.
Va un po’ meglio con l’avvento di Benito Floro, che porta Coppa di Spagna e Supercoppa nazionale, ma sarà soltanto con Jorge Valdano in panchina che, finalmente, il Real tornerà a metter le mani su un campionato che manca ormai da un lustro. Il contributo di Luis Enrique è decisivo, ma l’anno seguente, per lui e per la squadra, si rivela fallimentare. E il presidente Sanz, assai frettolosamente, lo lascia libero di accasarsi proprio presso gli arcirivali del Barcellona. Un’avventatezza di cui, garantito, si sarà pentito mille volte.
Bobby Robson fa presto di Luis Enrique una pedina imprescindibile: saranno 17 le sue reti alla fine di una stagione che ai catalani, rafforzati da Ronaldo il Fenomeno, frutterà un paio di trofei domestici ma soprattutto la Coppa delle Coppe.
Ancor meglio andrà l’anno seguente, con la staffetta in panca fra l’inglese e Louis Van Gaal, che porterà in bacheca, anche grazie ai 25 gol dell’asturiano – che ormai porta al braccio la fascia di capitano – Liga e Supercoppa europea. Seguirà un quinquennio senza acuti, segnato da uno stillicidio di cambi di coach: Serra Ferrer, Rexach, di nuovo Van Gaal, di nuovo Antic e infine Rijkaard.
Nomi di allenatori che elenchiamo – come tutti gli altri citati fin qui – non certo a fini statistici, ma perché Luis Enrique nel corso dell’intera sua carriera ha sempre studiato da allenatore, e c’è da scommettere che avrà osservato al microscopio il lavoro di ognuno di loro, cercando da tutti di ritenere il meglio e scartare il loglio.
Insegnamenti che metterà a frutto fin dalle primissime esperienze da tecnico, dal triennio al Barça B alla sfortunata stagione alla Roma, dove nessuno si accorge del suo valore, dove lo trattano come fosse un ritardato e da dove salperà presto, rinunciando a un anno di stipendio a 3 milioni di euro: uomo di rara fattura.
Ricomincia subito a Vigo, salva in scioltezza il Celta e poi rientra al Barça, stavolta per condurre la prima squadra, a cui regala uno strepitoso triplete: il trionfo in Champions sulla Juve (2015) lo proietta nell’esclusivo club dei coach leggendari. Un paio d’anni dopo accetta la proposta della Federazione spagnola, che dopo il Mondiale in Russia gli offre la panca che Fernando Hierro ha occupato soltanto per 1 mese.
Svolge un ottimo lavoro, ma meno di un anno più tardi dà le dimissioni per gravissimi motivi personali: la sua bambina Xanita, 9 anni, ha un tumore alle ossa, e lui vuole starle accanto. La piccola, purtroppo, perderà la sua lotta, gettando Luis nel peggiore dei drammi immaginabili.
La mazzata potrebbe stroncare chiunque, ma non lui, che attingendo alle sue inesauribili risorse caratteriali, elabora al meglio il lutto, lo tramuta in forza e, nel giro di pochi mesi, riassume il comando delle Furie Rosse, sostenuto e accompagnato ovviamente dall’esempio ricevuto dalla sua sfortunata figlioletta. E infine, come detto, Parigi.