Calcio

‘Ho avuto l'impressione che mi chiamassero Pelé’

Pia Sundhage a ruota libera nell'imminenza dell'Europeo femminile. ‘Spero possa diventare un evento indimenticabile’

‘Occorre uscire dalla zona di comfort e osare’
(Keystone)
19 giugno 2025
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Selezionatrice della Svizzera da un anno e mezzo, Pia Sundhage cercherà di portare tutta la sua esperienza a una Nazionale svizzera che si appresta a vivere un grande momento all'Europeo casalingo. Le sue giocatrici «dovranno uscire dalla loro comfort zone», sottolinea la 65enne svedese.

Come è arrivata al calcio Pia Sundhage? «Sono cresciuta nel piccolo villaggio di Mèarbäk, nel sud della Svezia, che conta suppergiù 250 anime. E lì nessuno si interessava al calcio, eccetto la sottoscritta. Erano anni, quelli, in cui i concetti erano ancora fissi: solo i ragazzi potevano calciare un pallone, mentre le ragazze lo dovevano lanciare. Tuttavia lo trovavo noioso, e allora ho cominciato pure io prendere la palla a calci, cosa che mi divertiva assai. I miei genitori allora mi hanno regalato un pallone affinché potessi palleggiare contro il muro del garage di casa. A volte capitava che qualche vetro andasse in frantumi ma, malgrado ciò, i miei genitori hanno sempre sostenuto me e i miei cinque tra fratelli e sorelle, anche se eravamo parecchio differenti l'un l'altro».

È dunque palleggiando contro il garage che Pia Sundhage si è guadagnata la maglia della nazionale svedese? «No. Un giorno, un allenatore di una squadra giovanile mi ha avvicinata chiedendomi se volessi giocare una partita di calcio vera, su un campo vero, con tanto di porte e reti, divise ufficiali e un arbitro. Ho ovviamente risposto affermativamente. E lui: «Allora dovrai barare un po‘...». In che senso? «Abbiamo cambiato il mio nome. La ragazza Pia è diventata il ragazzo Pelle. Di prim'acchito, ho avuto l'impressione che gli altri mi chiamassero ’Pelé‘ (aggiunge, ridendo, ndr)». Come ha vissuto questi anni? «Sono sempre stata diversa dai miei coetanei, come del resto è normale che sia, perché è normale non fare le stesse cose che fanno tutte le altre ragazze. Mi guardavano come se fossi un maschio, ma non ci badavo, perché il mio miglior amico è sempre stato il pallone».

Ha sempre dovuto nascondere la sua femminilità? «A scuola, una volta i miei compagni hanno detto ai maestri che giocavo a calcio. Non osavo dire nulla, sono sempre stata molto timida. Solo il calcio mi ha reso più socievole. Gli insegnanti mi hanno chiesto se preferissi giocare a calcio per 40 minuti con i ragazzi piuttosto che fare ginnastica. Ho pensato che fosse fantastico. In seguito, sono sempre andata in bicicletta fino al villaggio vicino per giocare a calcio. A 11 anni ho giocato per la prima volta in una squadra femminile, con una maglia bianca e blu».

Giocava solo o seguiva anche il calcio in modo diverso? «All'epoca c'erano due canali televisivi, ed entrambi in bianco e nero. Non potevamo permetterci un televisore a colori. Ogni sabato alle 16 trasmettevano le partite dell'Inghilterra. Così ero sempre seduta davanti allo schermo, anche se la qualità dell'immagine era scarsa». E qual è la squadra che seguiva in modo particolare? «Da bambina ero una grande tifosa del Liverpool, anche se non saprei dire perché (altra risata)».

Nel 1984 la Svezia ha vinto il primo Campionato europeo femminile, battendo l'Inghlterra in finale grazie al rigore decisivo nella ripresa segnato da... Pia Sundhage. Allora, a Luton, allo stadio c'erano 2'500 spettatori. Per l'Europeo svizzero di quest'anno, parecchie partite sono già ‘sold out’: avrebbe mai pensato a una crescita simile di popolarità del calcio femminile quarant'anni fa? «Abbiamo tutte lottato per questo. Quando un giorno, all'età di 13 anni, ho detto che volevo diventare una calciatrice professionista, mi è stato detto: ’Sai che sei una ragazza‘, ed è per questo che sono felice che oggi le cose siano cambiate. All'epoca dovevamo allenarci alle 21, perché prima il campo era occupato. Oggi molte giocatrici possono essere professioniste e lavorare ogni giorno sulle loro abilità con gli allenatori. E la finale del 1984 non sarebbe più stata la stessa. Il campo non era nemmeno in grandi condizioni... Ma all'epoca non ci importava, perché eravamo semplicemente felici di poter partecipare».

A proposito dell'Europeo del 1984, c’è stata una grande accoglienza al vostro rientro a Stoccolma? «Qualcuno della Federazione era presente per congratularsi con noi, ma non c'erano molte altre persone. In un giornale, però, sono state stampate due pagine su di noi. Due pagine, con una foto. All'inizio pensavamo che ci stessero prendendo in giro, ma in realtà hanno scritto di noi». Quando a inizio 2024 lei è entrata a far parte dell'Asf come allenatrice, i titoli dei giornali erano piuttosto altisonanti. Il fatto che un'allenatrice della sua fama, che ha allenato tra gli altri Stati Uniti, Svezia e Brasile e ha vinto due medaglie d'oro olimpiche, prendesse in mano la piccola Svizzera ha sorpreso molte persone... «Come allenatrice di nazionale, hai il privilegio di poter selezionare i migliori giocatori di quel Paese. È davvero bello. Il lavoro è certamente lo stesso ovunque, ma la cultura e l'atteggiamento della gente sono molto diversi ogni volta. Lavorare in Paesi e culture diverse mi ha reso più aperta e cosmopolita. Ciò che funziona negli Stati Uniti non funziona necessariamente in Svezia, e ciò che viene compreso in Cina potrebbe suscitare solo sguardi interrogativi in Brasile. Sono molto grata per queste esperienze». Cosa ha potuto vedere in questo anno e mezzo di permanenza in Svizzera? «All'inizio pensavo che la Svizzera fosse simile alla Svezia. Ora posso dire che non lo è (altra risata)». Perché? «Faccio un esempio: per fare qualcosa in Svizzera, prima si devono compilare tre documenti. Poi ci sono due riunioni e, alla fine, magari un'altra teleconferenza. Quindi, tra l'idea e il momento in cui si prende una decisione, spesso il processo è lungo. Quando ero in Brasile, pensavo di dover essere paziente, ma in Svizzera occorre esserlo ancora di più! Ma è comprensibile, perché gli svizzeri non vogliono mai sbagliare...». Si nota questa caratteristica anche in campo? «Quando ho iniziato a lavorare in Svizzera, ho cercato di capire cosa caratterizzasse le giocatrici rossocrociate, ma non è stato così facile riempire la lavagna luminosa su cui avevo scritto ‘identità svizzera’ con parole chiave appropriate. Ho allora chiesto alle giocatrici cosa le caratterizzasse fisicamente, mentalmente, tecnicamente, tatticamente, ed è emerso che sono brave in tutti i settori, ma non eccellono in nessuno».

Cosa ne pensa? «L'ho trovato interessante. Negli Stati Uniti, mi trovavo in un ambiente in cui tutte erano convinte di essere le migliori e volevano ottenere il massimo. E se, ai loro occhi, non erano ancora le migliori al mondo in qualcosa, continuavano ad andare avanti finché non ci arrivavano. Le brasiliane ballavano molto e trovavano sempre un modo per essere felici, indipendentemente da ciò che accadeva in campo. Le svizzere sono molto più riservate e sobrie». Come si comporta con loro? «Cerco di far capire loro che devono essere a loro agio per osare, devono uscire dalla loro zona di comfort e commettere errori. L'errore più grande che si possa fare è non provarci affatto. Nello staff abbiamo dei lucidi su cui si può leggere ’Prova‘, ’Due passi in più’ o ‘Lotta’. Se le giocatrici fanno sempre e solo ciò che sanno già fare bene, non scopriranno mai quanto sono forti. Trasmettere questo coraggio è probabilmente una delle sfide più grandi che devo affrontare come allenatrice».

Quando esce dalla sua zona di comfort? «Quando canto (nuova risata)». Quindi Pia Sundhage è anche un'appassionata di canto... «Sì, ma non quando devo cantare in tedesco. Una volta ho cantato ‘Ein bisschen Frieden’ di Nicole alla squadra. Avevo il mio cellulare così (avvicina la mano al viso) per poter leggere il testo. Mi sentivo a mio agio? Assolutamente no, era spaventoso. Ma è proprio questo il punto. Questo disagio fa parte del gioco e ogni giorno abbiamo l'opportunità di dare il meglio di noi stessi».

Il 2 luglio, quando la Svizzera a Basilea accoglierà la Norvegia per il suo primo impegno al ‘suo’ Europeo, la tensione sarà senza dubbio palpabile. Anche perché la Nazionale rossocrociata non vince da otto partite... «La leggendaria attaccante americana Abby Wambach diceva: ‘È un privilegio giocare sotto pressione. Se fosse facile, tutti potrebbero essere campioni olimpici, quindi deve essere difficile’». Il lungo digiuno in fatto di successi non la spaventa? «Non facciamo gol, questo è un problema. Non abbiamo vere attaccanti in squadra, ma credo che abbiamo dieci giocatrici che hanno segnato due volte. Si può pensare che non ne abbiamo una che segna molto, oppure che abbiamo una squadra equilibrata in cui molte giocatrici possono segnare. Ci sono sempre diverse prospettive».

Che tipo di partita inaugurale vorrebbe? «Nel 2013 ho già giocato un Euro in casa come allenatrice della Svezia. Uno dei momenti più belli è stato quando sono andata allo stadio e ho visto quanta gente voleva vedere la partita. I tifosi svedesi e danesi festeggiavano insieme in un'atmosfera serena. Spero che a Basilea non vedrò solo bandiere svizzere, ma anche norvegesi. Non si tratta solo di vincere, ma di creare insieme un evento indimenticabile. C’è anche molta pressione, certo, ma sarà meraviglioso».