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L’‘età d’oro’ del pallone tra tante ombre e poche luci

La pellicola del Mondiale per club, accanto a fotogrammi d’autore (come il gol in sforbiciata di Mbappé), ce ne sono stati però altri più sfocati

C’è chi festeggia
(Keystone)
16 luglio 2025
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«È iniziata l’età dell’oro del calcio per club». Così ha sentenziato Gianni Infantino dalla cima della Trump Tower, mentre alle sue spalle una fila di calciatori iconici – da Baggio a Ronaldo il Fenomeno – lo osservano basiti. Non era la loro l’età dell’oro del calcio? Non lo sono tutte? Senza alcun contraddittorio, il presidente della Fifa ha rivendicato il successo del suo Mondiale per club come storico, raccontandolo come la cosa migliore mai successa a questo sport, uno sport che, ricordiamolo, è già il più seguito e praticato al mondo da oltre un secolo.

Ciò che dicono i numeri

Se guardiamo ai freddi numeri, la sua affermazione ha senso: più di 2 miliardi di dollari di entrate (almeno a sentire lo stesso Infantino) e 1 miliardo di dollari di montepremi distribuiti ai 32 club coinvolti, arrivati negli Stati Uniti da ogni parte del mondo: dalla Nuova Zelanda al Brasile, dalla Corea del Sud al Sudafrica. E poi: 63 partite giocate, 195 gol segnati, circa 700 calciatori convocati e un totale di quasi 2 milioni di biglietti venduti, a cui si aggiungono gli oltre 20 miliardi tra visualizzazioni e streaming online e i 2,7 miliardi di menzioni sui social, per quel che valgono.

Del Mondiale per club si è parlato, si è scritto, si è discusso, non è fallito nell’indifferenza generale come poteva sperare qualcuno. Ma basta questo a decretare il successo di una competizione? Questa prima edizione, che doveva fare da traino al Mondiale per nazioni che si svolgerà sempre da queste parti, nelle stesse date, l’anno prossimo, ha mostrato più ombre che luci, soprattutto la sensazione che il calcio stia andando davvero troppo veloce. «Il Mondiale per club non è l’origine dei problemi che investono il calcio», ha detto Jorge Valdano, uno che quando si parla spesso ci azzecca, «però è di certo uno specchio in più su cui si riflettono le contraddizioni che lo riguardano».

Troppe partite, caldo e... troppo Trump

Questa appendice estiva a una stagione calcistica già abbastanza lunga è sembrata più una punizione che un premio per calciatori e tifosi, come quando a scuola eri costretto a passare le vacanze a studiare per aver preso dei brutti voti. Non molti di loro sembravano particolarmente entusiasti di essere lì, invece che a godersi le vacanze, e anche la risposta dei tifosi è stata tiepida. Molti biglietti sono stati venduti all’ultimo, quando la Fifa abbassava drasticamente i prezzi per non lasciare gli stadi vuoti (si parla di salti da oltre 400 a 13 dollari), che però si sono comunque visti. Anche dal televisore il tutto sembrava poco ‘vero’. Le partite sono sembrate come grandi amichevoli, anche perché l’estetica ricordava proprio quella dei tour estivi, che le squadre più blasonate fanno oggi al posto dei ritiri.


Keystone
Presenza ingombrante

In molti hanno evidenziato quanto questo Mondiale per club fosse non necessario. L’ultimo in ordine di tempo è stato Jurgen Klopp, che l’ha definito «una follia assoluta, la peggiore idea mai sperimentata nel calcio». Aggiungendo che «non si può andare avanti così. Senza pause, anche il prodotto perde valore». Parole simili, anche se ovviamente molto più diplomatiche, visto che le loro squadre hanno preso i soldi, molti, del montepremi, sono arrivate da Guardiola e Maresca, che più di tutti avranno avuto la percezione di quanto il Mondiale per club abbia ulteriormente stressato i loro giocatori. Nei giorni scorsi il loro sindacato (Fifpro) ha definito il calendario calcistico “un massacro”, lamentando il rischio concreto di aumentare il numero di infortuni aumentando il numero di partite. Il record stagionale appartiene a Federico Valverde del Real Madrid, che con la semifinale persa malamente contro il Psg è arrivato a 6’674 minuti in campo, che sono praticamente 74 partite piene e spicci, un numero esorbitante.

Inoltre giocare tra giugno e luglio negli Stati Uniti non sembra un’idea geniale. Enzo Fernández ha raccontato come in campo gli «veniva da svenire… Giocare nel caldo oltre i 35 gradi è pericoloso per i giocatori e penalizza lo spettacolo». Marcos Llorente ha detto che per il caldo gli facevano male «anche le unghie dei piedi». L’immagine simbolo è quella di un ventilatore gigante puntato sulla panchina del Chelsea, inquadrato nei primi minuti della finale contro il Psg. Ma il caldo ha colpito anche i tifosi, costretti a stare sotto il sole di mezzogiorno in stadi senza un briciolo d’ombra, e con code di oltre 45 minuti per comprare una bottiglietta d’acqua, che non era possibile portare da fuori. E quando non è stato il caldo, sono state le tempeste. Diverse partite sono state sospese per pioggia, o per il rischio fulmini. Questo ha portato a partite surreali, come Chelsea-Benfica, sospesa all’ottantacinquesimo e ripresa ben due ore dopo in uno stadio ormai vuoto.

Proprio perché tutte queste difficoltà erano ipotizzabili, nei mesi precedenti si era parlato di un possibile sciopero dei calciatori. «Nessuno ci chiede cosa ne pensiamo se vengono aggiunte nuove partite» si era lamentato Alisson a inizio stagione; De Bruyne aveva anche individuato chiaramente il motivo del perché «sembra che il denaro parli più forte delle voci dei calciatori». Il belga, nonostante fosse ancora sotto contratto con il City, si è rifiutato di partecipare al Mondiale per club, ma è stato praticamente l’unico. I calciatori sono infatti consapevoli che, se vogliono continuare a guadagnare quello che guadagnano ora, la soluzione è aggiungere altre partite, possibilmente in ricchi tornei di questo tipo, che servono a rimpinguare le casse dei club che gli pagano lo stipendio.

Il denaro è stato il vero motore di tutto

Il denaro è stato il vero motore del Mondiale per club. Il motivo per cui i club sono andati e hanno fatto buon viso a cattivo gioco. E i soldi sono arrivati grazie a Dazn, che ha comprato i diritti televisivi per un miliardo di dollari, per poi subito dopo cedere tra il 5 e il 10 per cento delle sue quote al fondo sovrano dell’Arabia Saudita per la stessa cifra. È un passaggio quantomeno sospetto, in quello che potrebbe essere l’ennesimo tentativo del Paese di pulire la propria immagine pubblica attraverso lo sport. Infantino ha chiaramente scelto di concedere il calcio come veicolo geopolitico per i Paesi del Medio Oriente e per Trump, in cambio di soldi e potere.

La presenza del presidente degli Stati Uniti è stata un’altra criticità di questo torneo. Proprio in senso fisico: durante la premiazione del Chelsea, Trump è rimasto sul palco, prendendosi la scena che doveva essere dei calciatori mentre alzavano il pacchiano trofeo riservato ai vincitori. «Non sapevo sarebbe stato sul palco quando abbiamo sollevato il trofeo. Ero un po’ confuso, sì» ha detto Cole Palmer, che ha deciso la finale con due gol e un assist. Ancora più surreale è stato il siparietto con i giocatori della Juventus, presenti alle sue spalle nella sala ovale mentre rispondeva alle domande dei giornalisti su un eventuale attacco all’Iran, in un momento di grande tensione. Nessuno di loro sapeva sarebbe andata così, e di certo non è stato un bello sponsor per il calcio, fare da sfondo a un presidente che minaccia di distruggere un Paese nemico.

Il calcio, comunque, è calcio

Il calcio, comunque, è calcio pure col caldo, la stanchezza, la mitomania di Trump e Infantino o la voglia di andare in vacanza. E se ti piace il calcio, un torneo con i migliori giocatori al mondo non può essere mai solo il male. Qui e lì si sono visti grandi momenti, individuali e collettivi. La punizione di Messi contro il Porto, a ricordarci che certe cose non finiscono mai; alcune finte di corpo di Busquets, per lo stesso motivo; il gol di Christian Gray, professore-calciatore dell’Auckland City (la squadra di calciatori semiprofessionisti della Nuova Zelanda di cui magari vi è arrivata notizia) per pareggiare la partita contro il Boca Juniors, un gol che – come si dice in questi casi – racconterà ai nipotini. Ma anche il gol di Lucas Ribeiro del Mamelodi Sundowns Fc contro il Borussia Dortmund, un coast to coast bellissimo che forse vi è sfuggito, o quello di Mbappé in sforbiciata. E poi l’impatto di João Pedro (che all’inizio della competizione giocava al Brighton, ma vabbè: facciamo finta di nulla), alcune azioni collettive del Psg, le parate di Di Gregorio, i giovani che hanno avuto spazio e se lo sono presi: Pio Esposito, Estêvão, Mastantuono, Gonzalo García, Jobe Bellingham (il fratello di Jude) tutti nomi che continueremo a sentire in futuro.

Ma, almeno dal mio punto di vista, che come avrete intuito non ho amato molto questo Mondiale per club, la cosa più bella di tutte è stata vedere le squadre non-europee dare filo da torcere a quelle europee, o comunque rendere più vivo il torneo, provare a dargli un’identità. I tifosi del Boca che trasformano l’Hard Rock Stadium di Miami nella Bombonera per una sera; il Monterrey che impensierisce il Borussia Dortmund agli ottavi; i sudafricani del Mamelodi Sundowns che vanno a un passo dal superare il girone e, comunque, dopo l’eliminazione si mettono a ballare insieme a tutto lo stadio; l’Al-Hilal di Simone Inzaghi che butta fuori il Manchester City di Guardiola in quella che è stata la partita più bella di tutto il torneo, finita 4-3 ai supplementari, come la partita del secolo. Più di tutti sono stati i club sudamericani a ricordarci che, poi, le partite vanno giocate e la distanza economica non corrisponde a quella sportiva. Nonostante anche per loro il calendario sia pieno, il caldo asfissiante e gli spostamenti complicati, non si sono lamentati e hanno dato tutto, sicuramente più invogliati a fare bella figura, a dimostrare che il calcio è troppo eurocentrico. Lo scettro della Cenerentola se l’è preso il Fluminense, arrivato fino alla semifinale e a giocarsela col Chelsea, con il 40enne Thiago Silva al centro della difesa.

Alla fine, magari non definirei questa l’era d’oro del calcio, e sicuramente non lo è grazie al Mondiale per club, tuttavia l’idea di creare un torneo davvero ‘mondiale’, che unisca tradizioni e stili calcistici diversi, ha il suo innegabile fascino. Vedere River Plate-Inter, Benfica-Boca Juniors, Psg-Botafogo è comunque stuzzicante, qualcosa di nuovo. Nel corso del tempo – a partire dalle tournée delle squadre sudamericane in Europa e viceversa negli anni 30 – il calcio ha spesso provato a stabilire quale sia il miglior club al mondo, con più o meno successo. Il sogno sarebbe di poterlo fare in maniera sostenibile per calciatori e tifosi, un torneo che sia pensato per loro e non per la politica.


Keystone
La rete di Gray