È passato mezzo secolo da quando l’italiana conquistò l’unico mezzo punto iridato femminile della storia, ma le donne ancora faticano a imporsi
Sono trascorsi cinquant’anni dal primo e unico Mondiale di Formula 1 che vide andare a punti una pilota. Domenica 27 aprile 1975 l’italiana Maria Grazia “Lella” Lombardi su March 751 concluse al sesto posto il Gran Premio di Spagna sul circuito cittadino interno al Parc del Montjuic di Barcellona, gara che rappresentò il canto del cigno del tracciato ma che, soprattutto, passò alla storia come una delle pagine più nere dell’automobilismo, visto il susseguirsi di incidenti, tra i quali quello che vide perdere l’ala posteriore della Lola-Hill Embassy di Rolf Strommelen, che decollò e finì contro una rete di protezione. I detriti dell’auto causarono la morte di quattro persone e ne ferirono sei.
La corsa fu interrotta al giro 29, ma anziché la bandiera rossa fu sventolata, probabilmente per errore, quella a scacchi, che significava la fine della gara e, pertanto, l’assegnazione di punti dimezzati, poiché da regolamento non era stato completato almeno il 75% della corsa. È così spiegato il mezzo punto assegnato a Lella Lombardi, alla sua seconda gara in Formula 1 sulle 18 complessive (12 le partenze disputate). Uno 0,5 entrato nella storia, non tanto per la prestazione, comunque notevole – Lombardi era partita ventiquattresima in griglia a causa di un malfunzionamento della trasmissione che le rendeva impossibile innestare la quinta marcia –, quanto per il significato dell’evento. La prima donna a correre con un contratto da professionista (a differenza della contessa Maria De Filippis, pioniera delle donne in F1 a fine anni 50) finisce a punti in un contesto dove vigeva ancora l’oramai logora equazione “velocità=sport da maschi”, spezzando concretamente un tabù.
Per illustrare meglio cosa significasse all’epoca per una pilota correre in un mondo così alieno, si può citare un passaggio del libro ‘Lella Lombardi. Un Pilota, una Donna’, scritto da Giacomo Arosio e pubblicato un paio di mesi fa dalla bolognese Minerva Edizioni: “Di certo Lella avrebbe meritato di essere ascoltata un po’ di più, specialmente riguardo ad alcune osservazioni sul comportamento in curva della sua March 751, sottosterzante in inserimento e sovrasterzante in modo anomalo una volta premuto l’acceleratore. Nonostante descriva il problema in modo accurato, Lella riceve una risposta ironica: l’unico rimedio – le viene detto – è andare più forte […] Nella stagione successiva, sostituita da Ronnie Peterson, lo svedese lamenta lo stesso difetto evidenziato dalla Lombardi. Una successiva verifica operata dalla March sul vecchio telaio utilizzato da Lella e Ronnie, ormai accantonato, farà emergere la rottura del bulkhead posteriore, invisibile senza un controllo approfondito”.
Eppure è proprio nel periodo che si articola tra la seconda metà degli anni 70 e i primi 80 che qualcosa si muove a livello femminile nelle categorie del motorsport più seguite dal grande pubblico. Nel rally la francese Michelle Mouton arrivò a giocarsi il titolo mondiale, mentre in Formula 1 il Gran Premio di Brands Hatch del 1976, boicottato dalle televisioni inglesi perché la Surtees di Alan Jones era sponsorizzata da una marca di preservativi, vide iscritte per la prima e unica volta due donne: Lella Lombardi e l’inglese Divina Galica. Nel 1980 si affacciò brevemente nel Circus la sudafricana Denise Wilson, secondo molti l’unica donna ad aver vinto una gara guidando una monoposto di F1. È vero a livello formale ma non sostanziale, perché Wilson vinse, su Wolf WR4, nella Formula 1 Aurora AFX, campionato britannico al quale partecipavano vetture della massima serie motoristica utilizzate da costruttori britannici nelle stagioni precedenti e gestite da scuderie private. Niente a che vedere quindi con gli 0,5 punti di Lella Lombardi conquistati nel campionato vero. Dove, nella storia della pilota piemontese, va ricordato almeno il settimo posto al Nürburgring nel 1975, ottenuto a dispetto di una foratura con una strepitosa gara. Ma all’epoca solo i primi sei a tagliare il traguardo prendevano punti.
Cinquant’anni dopo, in un mondo completamente cambiato, dove negli ultimi anni sono emerse con prepotenza istanze e richieste di eguaglianza in ogni settore della società, paradossalmente l’approdo in Formula 1 per una donna risulta più difficile rispetto al passato. Lo dicono i numeri: l’ultima donna a correre nel Circus è stata l’italiana Giovanna Amati nel 1992, tre GP alla guida della Brabham senza mai riuscire a qualificarsi per la gara. Poi 22 anni di assenza fino all’inglese Susie Stoddart, futura coniuge di Toto Wolff, che in quattro occasioni prese parte alle prove libere pilotando rispettivamente una Williams FW36 e una FW37. Fine. Il resto è stato relegato a soli test privati. Nel 2005 un’altra inglese, Katherine Legge, ha girato a Vallelunga su Minardi, poche settimane prima della cessione della scuderia faentina alla Red Bull. Cinque anni dopo la spagnola Maria De Villota si è rovinata la vita all’aerodromo di Duxford finendo con la sua Marussia contro il pianale di un camion di supporto della scuderia, riportando danni neurologici e perdendo un occhio. La Sauber ha utilizzato due tester donna, la svizzera Simona De Silvestro – prima donna ad andare a punti in Formula E – e la colombiana Tatiana Calderon, mentre la Lotus ha proposto la spagnola Carmen Jordà, deputandola però al solo utilizzo del simulatore e facendo nascere dubbi sulla natura puramente mediatica dell’iniziativa.
L’ultima pilota a guidare una monoposto di F1 è stata l’inglese Jessica Hawkins, in pista nel settembre 2023 all’Hungaroring con una Aston Martin AMR21. Ma anche se avesse voluto, il team di Lawrence Stroll non avrebbe potuto iscrivere la Hawkins a un Gran Premio, in quanto la pilota non è in possesso della superlicenza Fia per correre nella categoria. Tra superlicenze, divieti di test illimitati e percorsi di crescita ormai codificati (dai kart alla F4 fino alle altre categorie sotto la F1), la distanza dal vertice della piramide è aumentata rispetto all’epoca di Lella Lombardi. Ci sono più attenzioni ma meno possibilità.
È senza dubbio cambiata la mentalità del motorsport, dove la presenza femminile è sempre più visibile a ogni livello, anche parlando di posizioni apicali, come testimoniato dagli esempi di Hanna Schmitz, responsabile delle strategie in Red Bull, e Laura Müller, ingegnera di pista di Esteban Ocon in Haas. A livello di gare, però, certi stereotipi culturali sembrano non essere ancora definitivamente superati, come scritto dalla giornalista di Autosport Rachel Harris-Gardiner nel suo libro Speed Queens: The Secret History of Women in Motorsport: “[Questi stereotipi] ancora oggi rappresentano l’ostacolo maggiore per le donne nel mondo dei motori, perché costituiscono un carico che si somma a tutte le problematiche non di genere che ogni pilota si trova costretto ad affrontare. In primis la ricerca degli sponsor.
Avere milioni a disposizione per foraggiare la propria carriera non è un problema esclusivo delle donne. Una carriera di alto livello nel motorsport è irraggiungibile anche per molti uomini. Tuttavia, un uomo, o un ragazzo, che finisce contro le barriere non rappresenta un’anomalia o uno shock come se a farlo fosse invece una donna. L’errore di un uomo rimane l’errore di un singolo. Quello di una donna – sia una brutta prestazione, un passo gara modesto oppure un’uscita di pista – diventa un esempio di genere”.
La F1 Academy, la categoria solo femminile giunta quest’anno alla terza stagione, funziona a scopo propedeutico e formativo, come dimostrato dal numero sempre crescente di ragazze che si avvicinano alla disciplina, ma appare ancora scollegata dalla piramide del Circus. Nonostante ogni team annoveri almeno una pilota tra i propri rookie, il gap rimane troppo elevato, perché la categoria è di fatto una Formula 4, quindi almeno tre livelli sotto alla F1 (nel mezzo ci sono F2, F3, GB3 e, volendo, anche la Formula Regional Europea). Come dichiarato una volta al De Limburger da Max Verstappen, uno che non ha mai peli sulla lingua: “Le auto che guidano sono troppo lente. Se davvero si vuole che queste pilote un giorno arrivino in Formula 1, bisogna alzare il livello”.
La svizzera Léna Bühler, seconda nella prima edizione dell’Academy, è uscita dai radar, abbandonando le monoposto e correndo nelle categorie inferiori della endurance. L’inglese Abbi Pulling, che ha stradominato la passata stagione, ha lasciato l’Academy Alpine e corre nel GB3, campionato britannico definito, per la tipologia di auto utilizzate, una Formula 3,5. Il Ceo della Formula 3 Bruno Michel l’ha definita “non pronta” per gareggiare nella categoria. “Non perché non abbia talento, anzi, la ritengo dotatissima, ma non voglio bruciare nessuna carriera. Vorrei in F3 una pilota che mi offra garanzie di poter fare bene, che sia strutturata fisicamente e mentalmente per essere competitiva fin da subito”.
Gli addetti ai lavori sono divisi tra chi ritiene che le pilote siano più sopportate che supportate dalle grandi scuderie, e chi invece rileva come negli anni non sia mai emerso un talento così grande da far strabuzzare gli occhi, perché in quel caso sicuramente i grandi team non se lo sarebbero lasciato sfuggire.
Due aspetti complementari dello stesso problema. Da un lato Susie Wolff, presidentessa della F1 Academy, che mostra realismo parlando di pilote in F1 “non prima dei prossimi 7-10 anni”, aggiungendo però che “se non funziona la Academy, nient’altro potrà funzionare”; dall’altro la sensazione che Lella Lombardi non abbia lasciato alcuna eredità, se non a livello iconico e strettamente personale (lei che per natura si era sempre tenuta lontana da qualsiasi rivendicazione, in quanto “uomini e donne, sotto il casco, sono la stessa identica cosa”), perché di fatto non c’è più stata una Lella Lombardi.