Domani pomeriggio la Nazionale si gioca il posto in semifinale al Mondiale scandinavo. ‘Non è arroganza, ma per noi ora conta solo il weekend conclusivo’
Herning – Tra la Nazionale di Patrick Fischer e il volo che la porterà a Stoccolma resta un ultimo ostacolo, l’Austria allenata dallo svizzerissimo Roger Bader, farcita oltretutto di giocatori che giocano oppure hanno giocato nel nostro campionato, da Zwerger e Wolf che non necessitano certo di presentazioni a Rohrer dello Zurigo e Baumgartner del Berna, fino a quel Peter Schneider che transitò da Bienne, passando per Oliver Achermann che gioca in B nello Chaux-de-Fonds. Tecnicamente questo quarto di finale è un derby, ma per ‘Fischi’ è solo una partita come un’altra. Pur se i rossocrociati sanno bene che contro un avversario del genere hanno più da perdere che da guadagnare. «Cosa mi aspetto dagli austriaci? Che scendano in pista con una sensazione di grande fiducia, anzi direi di euforia – spiega il quarantanovenne tecnico di Zugo –. Senz’altro avranno buoni presagi, ma lo stesso vale per noi».
Quanto può essere penalizzante vestire i panni dei favoriti?
Ci siamo già ritrovati altre volte in questa condizione, ma d’altronde dopo aver chiuso il girone in testa non poteva essere altrimenti. Poi, direi che è soprattutto un qualcosa di mediatico: alla fine per noi non cambia nulla, e di certo non sottovaluteremo gli austriaci: faremo la nostra partita e loro faranno la loro, e poi vedremo se alla fine vincerà chi era favorito oppure no.
Martedì, pur a un orario insolito, sul mezzogiorno, avete faticato contro un Kazakistan che non è certo una superpotenza, così come non lo è l’Austria: che partita ti aspetti?
Mi aspetto che faremo ciò che sappiamo fare. È vero, contro i kazaki non abbiamo offerto la nostra miglior partita, ma abbiamo comunque avuto ben 18 occasioni e loro solo tre. Rispetto a martedì, la nostra intensità crescerà, indubbiamente, al pari della determinazione: saremo pronti, dovremo esserlo, perché gli austriaci lavorano duramente, quindi dovremo lavorare più duramente di loro.
L’impressione, da fuori, è che i risultati ottenuti in questi anni siano alla base della fiducia con cui questa squadra gioca. Sei d’accordo?
Sì, e questo si traduce in una maggior costanza a livello di rendimento. Anni fa, nei momenti decisivi come può esserlo un quarto, eravamo un po’ bloccati, mentre ormai il problema non esiste più. Tutttavia, in una sfida secca, da dentro o fuori, tutto può cambiare rapidamente: non solo bisogna saper creare il ‘momentum’, ma bisogna anche essere vigili, svegli, giocando in maniera astuta, e la gestione del disco deve funzionare come si deve. Affronteremo questa sfida esattamente come le altre sette: dobbiamo solo giocare a hockey, sfruttando ciò che sappiamo che ci rende forti.
In quelle prime sette partite, qual è l’aspetto che ti ha soddisfatto?
Che siamo stati i protagonisti di una fase preliminare molto buona, con sei vittorie consecutive e una sconfitta contro i cechi all’overtime in una partita sfuggitaci solo all’ultimo. Col passare del tempo abbiamo capito cosa fare e cosa no, e la grande chiarezza sul modo in cui vogliamo giocare ci regala fiducia, perché sappiamo che se faremo le cose nel modo in cui dobbiamo farle saremo difficili da battere, per chiunque.
Naturalmente, l’obiettivo è volare a Stoccolma per il weekend finale, dove dodici anni fa arrivò una medaglia d’argento che fu storica sul serio. Quella volta tu eri ancora l’assistente di Sean Simpson: cos’è cambiato dal 2013 a oggi?
A Stoccolma avevamo dovuto fare i conti con l’assenza di molta gente di talento: non c’era Brunner, non c’erano Sprunger e Wick. Eravamo reduci da due Mondiali difficili come quelli del 2011 e del 2012, ma in quell’occasione avevamo una squadra più forte, con dei ‘powerforward’ come Walker, Schäppi, Trachsler e Bieber, e arrivammo sino in finale. Fu un’enorme iniezione di fiducia, non solo per i giocatori ma anche per me. È stata la realizzazione che se ci credi, molte cose diventano possibili. A quel punto eravamo infine consapevoli di poter giocare bene: ed è questo a essere fondamentale, la fiducia in sé stessi. Che gli avversari erano incredibilmente bravi già lo sapevamo, ma ora sapevamo che bravi lo eravamo anche noi: il complesso d’inferiorità che nutrivamo era stato eliminato.
Tuttavia, non sempre le cose vanno come uno vorrebbe...
Certo, da allora abbiamo comunque dovuto vivere momenti non facili, uscendo di scena malamente, senza ottenere il premio che pensavamo di meritare, e abbiamo dovuto fare i conti con alcune lezioni dure come squadra. Però adesso siamo arrivati a un punto in cui sappiamo di poter vincere le partite anche giocando all’attacco, ciò che non riuscivamo a fare altrettanto bene prima. E non abbiamo più i problemi di un tempo neppure dal punto di vista dell’intensità e della combattività. Anche qui a Herning si è subito notato come i giocatori arrivati strada facendo si siano subito integrati: credo che in tutte le grandi ognuno sappia esattamente cosa fanno tutti i loro compagni. Si tratta soltanto di portare quell’energia, di mettere quel pizzico di determinazione in più: è questo che s’intende quando si parla di dettagli, e adesso che in lizza sono rimaste sole otto squadre e si entra nella fase a eliminazione diretta, sono quei dettagli a fare la differenza.
In passato, il quarto di finale era ancora il vero obiettivo, mentre oggi uscire ai quarti sarebbe una delusione.
Quando ho preso in mano la Nazionale, nel 2016, avevamo solo il 50 per cento di possibilità di arrivare ai quarti: c’era un nuovo modo di giocare, puntando più sull’attacco, ma subivamo troppi gol. Negli ultimi anni, invece, abbiamo accumulato sempre più punti, tanto che l’obiettivo è cambiato: ora, semplicemente, vogliamo arrivare al weekend conclusivo. Non voglio che questo suoni come qualcosa di presuntuoso o arrogante, ma l’obiettivo adesso è quello: ogni volta non vediamo l’ora di arrivare ai quarti, e adesso ci siamo.
È cresciuta la Nazionale ma è cresciuto anche il nostro hockey.
Certamente, il nostro campionato si è migliorato parecchio negli ultimi anni, e questo aiuta. Il problema, però, è che ci sono giocatori che sono sostanzialmente insostituibili: penso a Roman Josi, che quest’anno purtroppo non c’è, o a Nico Hischier che si è infortunato dopo un paio di partite. D’altra parte, un anno fa non avevamo Denis Malgin che ora invece c’è, e non avevamo neppure Janis Moser. Ci saranno sempre delle edizioni in cui mancherà qualcuno, ma ora abbiamo una squadra forte, che gioca più velocemente, a parte nelle ultime due sfide contro ungheresi e kazaki, ed è molto più concreta e decisa, e questo mi piace. E ora che c’è anche Nino Niederreiter, abbiamo un piano in testa.