A cinque giorni dalla prima amichevole, il Lugano è pronto a voltare pagina. Steinmann: ‘Non è il mercato che fa la squadra: è adesso che viene il bello’
C’è una parola che è quasi un mantra nel Lugano che verrà, e quella parola è cultura. L’accenna Thomas Mitell, il nuovo coach arrivato in Ticino qualche settimane fa dal grande Nord, e ne parla più volte Janick Steinmann, il ‘diesse’ catapultato sul Ceresio nel mezzo di una burrasca lo scorso marzo, dopo lo strazio di qualche notte insonne, e non soltanto per i giocatori.
Di quelle settimane drammatiche di fine inverno c’è ormai soltanto il lontano ricordo, ma a cinque giorni dalla primissima amichevole che segnerà l’inizio della nuova stagione – venerdì, sul ghiaccio della Lonza Arena di Visp – in tanti si chiedono ancora cosa s’intenda, esattamente, per nuova cultura. «S'intende che non soltanto vogliamo essere una squadra che gioca e si allena duramente: la nostra nuova filosofia riguarda anche il modo in cui ognuno di noi si pone, ogni giorno, e questo modo di essere dovrà avere un livello diverso rispetto a prima» dice Steinmann nell’incontro con la stampa dopo il primissimo allenamento sul ghiaccio della Cornèr Arena. «Ciò passa dalla comprensione del ruolo che ognuno di questi giocatori avrà e dall’accettazione di quel ruolo in seno alla squadra. Saranno queste le cose che cambieranno».
In un gruppo che a sua volta sarà cambiato parecchio, siccome nel Lugano affidato alle mani dello svedese Mitell (a proposito, puntualizza Steinmann, «Stefan Hedlund è l’associate coach, ma l’allenatore capo è Thomas Mitell, quindi è lui il responsabile di tutto») ci sono ben undici volti nuovi. «Parliamo in sostanza di metà squadra – continua il direttore sportivo bianconero – e di tre nuovi allenatori, contando anche il preparatore dei portieri. Ho riunito lo staff per un’intera settimana e assieme abbiamo esaminato sia ciò che ci attenderà nella preseason, sia nel resto della stagione. Infatti si potrebbe magari pensare che dopo aver operato sul mercato una squadra possa essere considerata fatta, invece è solo adesso che viene il bello, perché è in queste settimane che si gettano le basi per la costruzione di quel gruppo. Attraverso diverse iniziative di team building, ad esempio, ma anche spiegando a tutti quali sono le regole, assicurandoci che le capiscano e che le accettino».
Perché un conto è capirle, le cose, un altro è accettarle fino in fondo. E se per qualcuno potrebbe essere scontato che un professionista debba essere pronto all’azione sempre e comunque, in verità non ogni volta è così, come spiega un Dario Simion che, a giusta ragione, va considerato come il più grosso colpo del mercato bianconero. «È facile dire che si è sempre essere pronti, poi uno arriva alla partita che magari è un po’ stanco e nella tua testa trova una scusa per giustificare questa o quella cosa, così la serata va in malora» spiega il trentunenne attaccante valmaggese, tornato a vestire undici anni dopo quella stessa maglia con cui debuttò tra i professionisti nella stagione 2010/2011. «Questo è un aspetto fondamentale su cui deve lavorare ogni singolo giocatore: bisogna arrivare in pista tutti i giorni sapendo che quello è il tuo mestiere, che è un bell’impegno e lo devi assumere al 100% delle possibilità. Indipendentemente da come ti senti oppure da come vanno magari le cose a casa».
Ora che sei tornato, c’è qualcosa che hai notato di diverso rispetto a quando decidesti di partire, nel 2014, prima in direzione Davos e poi verso Zugo? «Direi per prima cosa sono cambiate un po’ le aspettative, e sinceramente io non mi aspettavo certo di vedere il Lugano nella situazione in cui era qualche mese fa... Da allora, però, ci sono stati grandi cambiamenti, e credo che la decisione in cui si vuole andare è quella giusta. Poi, è chiaro, potrebbe volerci del tempo. Io di sicuro sono felice di esserci: ho sempre detto che prima o poi sarei tornato, ma alla fine mi sono sempre trovato bene dov’ero. Adesso, però, credo che sia questo il momento giusto per ritornare dove la mia carriera è sbocciata».
La tua firma a Lugano era stata annunciata ancor prima che iniziasse la stagione scorsa: sinceramente, nel frattempo non ti erano venuti dei dubbi, vedendo la situazione drammatica che si stava delineando? «Certo, capisco la domanda, ma la verità è che so bene quanto le cose possano cambiare in fretta nell’hockey, e così come l’anno scorso le cose erano improvvisamente andate storte dopo un ottimo avvio, nessuno può escludere, in fondo, che quest’anno possa succedere l’esatto contrario. Adesso c’è un nuovo direttore sportivo, e Steinmann è uno che ha le idee chiare, e il suo modo di ragionare mi piace, e in panchina c’è uno staff tecnico di ottimo livello: sta soltanto a noi giocatori creare qualcosa dall’interno del gruppo, senza aspettare che lo faccia qualcun altro al posto nostro».
Anche se per te è nuova solo in parte, il fatto di piombare in una realtà diversa in piena metamorfosi può essere un vantaggio? «È questo per me è il grande punto di domanda: non mi era mai capitato prima di trovarmi in una situazione del genere, e proprio per questo credo che il focus debba essere posto sulla costruzione del gruppo e sull’implementazione di una nuova cultura. Bisognerà fare un passo alla volta, è ovvio, ma visto come si è conclusa la scorsa stagione questo è un nuovo inizio, e credo che tutti siano motivati all’idea di costruire qualcosa di solido. Poi posso immaginare che chi già c'era l’anno scorso qualche timore possa avercelo, dopo aver vissuto tutte quelle difficoltà, ma l’arrivo di così tanti giocatori da fuori porterà una nuova energia all’interno dello spogliatoio, e ciò renderà più facile dimenticare ciò che è stato. Tuttavia dovremo anche far sì che non vada persa la consapevolezza che come andavano prima le cose non andavano bene».
Quanto è positivo, se lo è, il fatto che a Lugano non solo non si fanno più proclami ma, per ora, non si è neppure accennato agli obiettivi stagionali? «Credo che questo, in realtà, sia il risultato dell’incertezza che regna in un campionato radicalmente cambiato rispetto a un tempo. Undici anni fa, prima che me ne andassi da qui c’erano sempre le solite tre o quattro squadre a giocarsi il titolo, e ai playoff le otto qualificate erano sempre più o meno le stesse: adesso, invece, è già difficile riuscire ad chiudere fra le prime sei, e non basta più soltanto essere consapevoli del proprio potenziale. Ecco perché, specialmente in questo momento di ricostruzione è importante focalizzarsi sul processo, piuttosto che sul risultato».
Tuttavia, rispetto a molte altre realtà del nostro Paese in Ticino la pressione mediatica e dei tifosi è particolarmente importante: sei pronto a tornare a conviverci? «Non so se sia qualcosa di culturale, per me è difficile dirlo, in ogni caso è vero che a Zugo o Davos la differenza l’avevo subito percepita – conclude Dario Simion –. Per come la vedo io, comunque, questo è qualcosa di positivo: significa che il nostro sport è molto seguito e amato, e la gente si appassiona a ciò che facciamo. Adesso starà soltanto a noi renderla orgogliosa e fiera di venire allo stadio a sostenerci».