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Il primo Giro d’Italia e la sincerità di Luigi Ganna

La Corsa rosa, logorante oltre ogni limite e vinta da un muratore varesino, prese il via proprio un 13 maggio

13 maggio 2025
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Dopo il trittico albanese e il primo giorno di riposo osservato ieri, consacrato in realtà al trasferimento della carovana verso la Puglia, la Corsa rosa ricomincia il proprio periplo quest’oggi, proprio nella data in cui, nel 1909, del Giro d’Italia scattava la prima edizione. La kermesse era nata sull’esempio del Tour de France, che si disputava già da sei anni e che si era rivelato un enorme successo – specie commerciale – davvero per tutti: corridori, giornali, produttori di bici, sponsor e località turistiche che, attraversate appunto dalla corsa, venivano magnificate e pubblicizzate dai cronisti al seguito della competizione.

Questi principi di base – a sfondo esclusivamente economico – sono quelli che, praticamente immutati, ancora oggi regolano e mantengono in vita la maggior parte delle gare ciclistiche e, in generale, tutto lo sport professionistico. A essere radicalmente cambiato, rispetto a quei tempi pionieristici, è invece tutto il resto: modalità di corsa, numero di atleti partecipanti, organizzazione generale, durata della manifestazione, lunghezza delle tappe, e naturalmente diverse sono ai giorni nostri le biciclette, che all’epoca venivano chiamate macchine, pesavano quasi trenta chili e ancora erano sprovviste della moltiplica.

Quello partito da Milano 116 anni fa era un Giro di soltanto otto tappe, però lunghissime e disputate con due o tre giorni di pausa fra una e l’altra. Il tracciato era così impegnativo – strade dissestate e velocità di crociera modestissima, oltre all’obbligo di ripararsi da soli la bici in caso di forature e altri imprevisti – che le frazioni prendevano il via la mattina prestissimo, attorno alle tre di notte, per consentire agli atleti di giungere a destinazione in serata, nella sede d’arrivo, prima che tornasse a far buio. Giusto per farci un’idea, quella primissima tappa – partita dal rondò di Loreto e conclusa all’ippodromo di Bologna – misurava ben 397 chilometri, distanza coperta dal vincitore, Dario Beni della Bianchi, in 14 ore e una manciata di minuti. Tendente all’epico furono anche la Bologna-Chieti, un po’ più corta (379 km) ma che richiese un tempo di percorrenza ancor maggiore, e la Genova-Torino (355 km e 13 ore di fatica per i migliori di giornata).

I distacchi al traguardo erano così ampi che la classifica, invece che a tempo, veniva definita a punti: se a contare fosse stato il cronometro, infatti, c’era il rischio che – già dopo il primo giorno – il divario fra il primo e il secondo della graduatoria non avrebbe mai potuto essere colmato. Il varesino Luigi Ganna dell’Atala, che poi si aggiudicò la classifica finale, nella tappa che univa Chieti a Napoli scavallando gli Appennini forò ben quattro volte e giunse a Posillipo 11° al traguardo e con 51 minuti di ritardo. Le cronache riportano inoltre che – in quel Giro e per diverse edizioni successive – alcuni suoi colleghi, ritrovatisi col telaio spezzato dopo rovinose cadute, riuscirono a rimontare in sella soltanto dopo aver trovato un fabbro in grado di saldare insieme i due tronconi in cui la macchina si era divisa.

Scandalo e ilarità insieme, in quel lontano mese di maggio del 1909, suscitò la notizia – giunta come ogni sera con un dispaccio telegrafico poi esposto dagli organizzatori in Piazza Castello a Milano – secondo cui il corridore Camillo Carcano era stato estromesso dalla gara per avere clamorosamente barato. In occasione della quinta frazione, fra Roma e Firenze (347 km), a Civita Castellana era infatti montato con la sua bicicletta sul bagagliaio di un treno, dal quale scese 240 km più a nord, a Pontassieve, dove bello fresco si riunì al gruppo di pedalatori sperando – invano – di non venire sgamato.

Al termine dell’ultima tappa, intascate le 5’325 lire destinate al vincitore (una cifra più che considerevole, va detto) e avvicinato dai giornalisti smaniosi di raccogliere le sue impressioni a caldo al termine di un’odissea conclusa soltanto da 49 dei 127 corridori iscritti, il buon Luisôn Ganna – che ogni giorno si allenava pedalando da Induno Olona a Milano per raggiungere i cantieri dove faceva il muratore – davanti ai taccuini aperti candidamente ammise: «Eh, me brüsa propi tanto el cü».