La violenza intrinseca del pugilato induce a considerarlo erroneamente una disciplina ad alto tasso di incidenti mortali
Contrariamente a quanto si è portati a credere, di pugilato si muore assai di rado. Eppure, quando succede che un boxeur ci lascia purtroppo la pelle, puntuali si levano cori a stigmatizzare questo antico sport e a chiedere che venga immediatamente bandito. Stavolta a perdere la vita per le conseguenze dei colpi ricevuti fra le corde, a distanza di poche ore uno dall’altro, sono stati addirittura due atleti. E, contingenza incommensurabilmente ancor più insolita, a vederli soccombere è stato, la stessa sera, il medesimo ring, quello della Korakuen Hall di Tokyo.
Finiti al tappeto il 2 agosto, sono poi morti, dopo un inutile intervento chirurgico, nel corso dell’ultimo weekend. Vittime della loro sconfinata passione – e in entrambi i casi di un ematoma subdurale – sono stati il superpiuma Shigetoshi Kotari e il peso leggero Hiromasa Urakawa, i quali, per rendere il caso vieppiù singolare, erano entrambi ventottenni. La stessa età, fra l’altro, che aveva pure l’irlandese John Cooney, l’ultimo martire in ordine di tempo fra i fighter, andatosene lo scorso febbraio dopo aver affrontato a Belfast il gallese Nathan Howells. Coincidenze e circostanze che indurrebbero a pensare che la nobile arte sia una disciplina pericolosissima, nella quale gli incidenti esiziali si verificano con una cadenza impressionante. Invece, come suggerito, è davvero poco frequente che gli inconvenienti di questo mestiere abbiano esiti ferali. Le statistiche dicono infatti che, nel nuovo millennio, nel mondo intero è scomparsa soltanto una trentina di pugili, cioè poco più di uno all’anno. Cifre irrisorie, se confrontate con quelle relative alle vittime provocate da sport generalmente (ma fallacemente) ritenuti più sani e meno rischiosi – penso ad esempio al ciclismo, all’alpinismo, alle immersioni subacquee, al running o alla tuta alare –, dove i morti si contano nell’ordine delle centinaia o addirittura delle migliaia.
Fra i motivi che nell’immaginario collettivo fanno considerare la boxe nient’altro che una carneficina c’è molto probabilmente (e altrettanto comprensibilmente) il fatto – innegabile – che questa disciplina si porta appresso una massiccia dose di violenza, dalla quale per sua stessa natura non può discostarsi, altrimenti scomparirebbe. Il pugilato, infatti, altro non è che una simulazione delle pratiche guerresche, come del resto lo è la maggior parte degli sport moderni, e la totalità di quelli antichi, che avevano come unica alternativa esser figli delle tecniche di caccia. Con queste premesse, è dunque inevitabile che lo sport in generale – e il boxare in particolare – abbiano mantenuto nel proprio Dna una componente certo non trascurabile di brutalità.
Innegabile è però pure il fatto che il mondo della boxe sia quello che più di ogni altro ha lavorato a fondo per cercare di limitare e regolamentare il più possibile questa sua imprescindibile eredità belluina, rendendo la pratica di quest’attività – nel corso dei secoli – sempre meno rischiosa per la salute. E infatti i casi di pugili morti in servizio sono andati clamorosamente diminuendo. Fino alla seconda metà del diciannovesimo secolo, quando la disciplina fu ufficialmente codificata dal marchese di Queensberry – il quale introdusse ad esempio l’uso dei guanti e una determinata durata dei round –, il pugilato altro non era che il pancrazio degli antichi Greci. Era in pratica proibito mordere, scalciare e colpire le parti basse, ma per il resto non sussistevano limiti, specie sulla durata dei combattimenti, che si chiudevano soltanto quando uno dei due contendenti non era più in grado di stare in piedi, e dunque in certi casi si andava avanti per ore, perfino per intere giornate, col risultato che – davvero – spesso ci scappava il morto. La noble art, dunque, col passare degli anni ha fatto in modo di ridurre all’estremo le conseguenze fatali: lo stesso non si può dire invece di alcuni altri sport, in cui il progresso tecnologico e la ricerca sempre più estrema della prestazione ha provocato invece un clamoroso aumento del numero di atleti deceduti sul campo, com’è accaduto ad esempio al già citato ciclismo.