Poco meno di cinque ore e mezza di gioco per consegnare agli annali una finale del Roland Garros destinata a entrare nella storia di questo sport
Alle 19.12 Carlos Alcaraz si avvicina ai raccattapalle e inizia uno di quei riti strani che fanno i tennisti professionisti. Una specie di rito magico in cui ci si fanno dare tutte le palline a disposizione, se ne scartano alcune e se ne scelgono altre, seguendo una logica del tutto misteriosa. Fa sì con la testa, sembra carico, ma deve fronteggiare tre match point nella finale del Roland Garros. Davanti a lui il suo rivale di oggi e di domani, Jannik Sinner.
Un punto, un solo punto, e Carlos Alcaraz diventerebbe il primo, fra i due, a perdere una finale Slam. Un punto, un solo punto, e Jannik Sinner eguaglierebbe Carlos Alcaraz a quattro Slam vinti. Lo batterebbe sulla sua superficie preferita, rimettendo in sesto una rivalità che negli ultimi due anni lo ha visto soccombere. Dominante con tutti, sconfitto contro uno.
Alcaraz fa un cenno verso il suo allenatore, Juan Carlos Ferrero, agita lievemente la sua racchetta. Allora lui sa che ci proverà fino alla fine, non lascerà nulla all’intentato. Annulla il primo match point col colpo che gli ha fatto vincere la partita, un dritto incrociato mortifero tirato con automatismo artificiale. Sul secondo match point, la prima non entra e Jannik Sinner fa due passi in campo, minaccioso, risponde col rovescio con tutta la forza che ha, ma la palla è lunga. Alcaraz annulla anche il terzo match point; respinge un attacco di Sinner con un dritto profondo, che piega il suo avversario.
Fino a quel momento era stata una finale bella ma tutto sommato normale, nei canoni, diciamo. In quel momento, però, diventa un’altra cosa ed entra nell’epica. «La più bella finale Slam della storia» l’ha definita l’influente coach Patrick Mouratoglou; «Il livello è pazzesco» ha commentato Wawrinka; «È il più grande match della storia» si è chiesto l’ex tennista Mardy Fish.
Vince il game, Carlos Alcaraz, ed esulta come se avesse vinto l’intera partita. Tiene il pugno alto e lo mostra a tutto lo stadio, trionfante. In quel momento è strano da dire, ma sembra abbia vinto la contesa, nonostante sia ancora indietro nel punteggio. Nonostante il suo avversario, il numero uno al mondo, il game successivo servirà per il match. Il tennis, però, lo sappiamo è crudele: bisogna cancellare subito le delusioni e passare al punto successivo. Quando però non converti tre match point al Roland Garros è difficile cancellare tutto, e nel tennis di Sinner subentra il peggior nemico degli eroi del teatro euripideo, e anche del tennis: ovvero il dubbio.
Su quello 0-40 Sinner era arrivato a infliggere ad Alcaraz un parziale di 15 punti a 1, mentre da quel momento in poi ne parte uno di 13 punti a 1 in favore dello spagnolo. Non c’è forse dimostrazione più plastica di una partita che cambia padrone. Alcaraz ottiene il break, poi vince il tiebreak, approfittando di un servizio di Sinner balbettante e di una condizione fisica sempre più precaria. Come dimostrato dalla semifinale con Lorenzo Musetti, Alcaraz ti prende prima alla testa, poi alle gambe.
È una partita tra due tennisti che sembrano macchine ad alta tecnologia. Le due migliori macchine del circuito, che giocano un tennis per lunghi tratti irreale. Da domenica abbondano i confronti tra i Big-3 e questi due giocatori incredibili. Sono confronti stimolanti ma spesso fuori fuoco. Quello che possiamo dire è che nessuno ha mai giocato a queste velocità, con questa urgenza, con questo gioco da fondo ai limiti della perfezione. Tirare forte, sempre, negli ultimi centimetri di campo; ricevere una palla forte, e rispondere ancora più forte, in un climax ascensionale potenzialmente infinito. Trovare sempre il miglior compromesso possibile tra rischio e riuscita. La finale veniva presentata come il confronto tra l’arte delle variazioni di Alcaraz e la potenza meccanica di Sinner, ma nessuno poteva davvero permettersi di rallentare. Alla fine è stata una finale che ha avvicinato il tennis a uno sport di combattimento, con un livello di violenza dei colpi ineguagliabile, certo sublimato dalla grande destrezza tecnica che il tennis richiede a quei livelli. Una partita da 122 vincenti distribuiti in cinque ore e mezza.
All’inizio del quinto set, quando Alcaraz ottiene il break, Sinner ha i crampi. Si avvicina in panchina a chiedere un potere miracoloso al succo di cetrioli e la partita ci sembra – ancora una volta – finita. È un match in cui chi sembra toccare il fondo trova la spinta per rimbalzare ancora più in alto. A guardarlo non ci si crede ma Sinner risorge ancora. Riprende a muoversi veloce, stabile negli appoggi, violento e preciso nelle esecuzioni. Ricomincia, cioè, a stritolare il gioco di Alcaraz. Le loro sfide le vince, in genere, chi prende prima il comando. Su terra non si credeva che Sinner potesse contestare il controllo da fondo campo di Alcaraz, e invece domenica lo ha fatto fin dall’inizio e – ancora nel quinto set – dentro la sesta ora di gioco, riusciva a prendere l’iniziativa, con risposte anticipate, dritti incrociati che parevano prendere fuoco; e poi i soliti cambi di linea lungolinea che pare aver ereditato da Djokovic. Minaccia di break Alcaraz, e poi riesce a strappargli il servizio proprio quando quello serve per la partita. L’ennesimo plot twist che mette lo stadio Philippe Chatrier in ginocchio.
È un momento difficile da raccontare, perché anche a guardare la partita davanti alla televisione ci sembrava di essere dentro un’allucinazione. Del resto eravamo dentro una partita di tennis, e dentro ai suoi saliscendi emotivi, da quasi sei ore e la realtà cominciava a slabbrarsi davanti ai nostri occhi: cos’è reale e cosa non lo è? Stavano davvero giocando in quel modo? Il tennis ha iniziato ad addensarsi e a rarefarsi allo stesso momento: ogni punto, ogni singolo quindici, ci sembrava decisivo, ma al contempo il punteggio stava assumendo una strana rarefazione, in cui era ormai impossibile capire chi avrebbe vinto. Sinner e Alcaraz giocavano da invasati, abitati da un tennis che non sembrava neanche il loro; piuttosto pareva attraversarli, fluire attraverso i colpi.
Alcaraz a un certo punto si ritrova a servire per spingersi al tiebreak – sotto 5-6 – e il ritmo di Sinner è debordante. L’italiano ritorna a due punti dal match grazie a una demi-volée di difficoltà incalcolabile. Solo che Alcaraz a quel punto inventa una cosa che non esiste. Sul 30-30 Sinner tira una risposta di dritto incrociata che sarebbe stata punto contro chiunque. Sarebbe stato il quarto match point. Alcaraz non solo ci arriva, ma risponde con un dritto in chop aggressivo. Cioè, un colpo difensivo che diventa offensivo: teso, quasi all’incrocio delle righe.
Di una partita leggendaria esistono degli snodi che non dimenticheremo mai. Alcuni singoli momenti dentro una vasta distesa di punti. Quel game, concluso con un passante di rovescio assurdo in quel momento del match, è il momento. Lo dice anche Alcaraz, nella conferenza post-partita: non ricorda troppo la situazione dei tre match point annullati, ma ricorda quel game perché ci sono stati tanti grandi punti. Da parte sua e del suo avversario. Una dichiarazione che racconta molto di Alcaraz, che ha bisogno di sentire il massimo del divertimento per arrivare al massimo della performance – e per questo è molto amato.
Quello che poi vediamo al tiebreak del quinto set non è spiegabile. Per parafrasare una citazione su Jordan, quello non era Alcaraz ma Dio travestito da Alcaraz. Ogni vincente sembra caricare quello successivo, in un climax di esaltazione mentale, tecnica, fisica e cognitiva. Come Steph Curry che inizia a tirare triple da ogni angolo del campo, Carlos Alcaraz gioca vincenti dappertutto inventando colpi che non esistono, riscrivendo sempre il vocabolario del tennis, ampliandone il ‘dicibile’. Il super-tiebreak del quinto è un’esibizione quasi fumettistica del talento di Alcaraz, una sequenza irreale di punti vincenti e colpi tipo un passante tirato al volo da fondo campo, o un altro passante tirato in corsa, sul match point, che gli regala il suo quinto Slam.
Cos’è che rende bella una partita di tennis? Certamente il livello di gioco inteso come espressione tecnica e fisica dei due giocatori. Il fatto che i punti vincenti siano più degli errori non forzati, certo. Però soprattutto l’impressione che i giocatori si spingano reciprocamente sul loro limite psico-fisico. Lo raggiungano e poi lo superino. Il senso del superamento, la sua percezione, è un fattore decisivo di una bella partita, ed è ciò che produce ciò che amiamo di più: il saliscendi nel punteggio, il cortocircuito tra uno sport in cui si giocano centinaia di punti ma uno solo può essere decisivo. In cui puoi vincere più punti del tuo avversario, ma perdere comunque la partita, come è successo domenica a Sinner, che ha vinto due punti più di Alcaraz.
A rendere una partita leggendaria, però, è soprattutto il senso storico che assume. Per questa ragione, quindi, Alcaraz-Sinner di domenica è stata davvero tra le partite migliori di sempre. I due da qualche anno promettono di essere la rivalità del futuro del tennis, e questo futuro si è manifestato a Parigi. Era la prima volta che i due si affrontavano in finale Slam, e come raramente capita, lo sport è riuscito a superare le aspettative del pubblico. Anzi, a produrre un continuo superamento di queste aspettative, in una partita in cui i due hanno raggiunto un livello di tennis mai visto: hanno innovato il loro sport davanti ai nostri occhi.
In queste ore si parla soprattutto dello spettacolo della partita, arrivato a un livello tale da rendere incerti i confini più netti che lo sport offre, quelli tra vittoria e sconfitta. Eppure Sinner era distrutto ai microfoni, e ci ha ricordato che il tennis è spietato e c’è sempre un vincitore e uno sconfitto. E mentre noi godiamo dello spettacolo che si agita attorno, è sempre la ricerca della vittoria che muove tutto. Nel tennis le strade per raggiungerla sono tante, dolorose ed esaltanti.