
‘Il Brasile non è solo un Paese, è un sentimento. E Salvador è il battito di quel sentimento’, parola di Caetano Veloso
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Ho sempre tifato contro il Brasile del “joga bonito”, che i miei amici adoravano, che tutti adorano, preferendo la classe più spigolosa di argentini e uruguaiani. Sentivo continuamente storie di turisti rapinati e malmenati a Rio. E c’era un chiassoso amico di famiglia con delle compilation insensate in cui musica cialtronesca come la Lambada si mischiava ai capolavori della bossanova, confondendomi e facendomi odiare tutto, senza distinzioni. Il portoghese dei brasiliani, poi, è quasi incomprensibile per via dei loro birignao. Insomma, io il Brasile ce l’avevo qui. Poi, per caso, dentro una libreria, ho ascoltato “Para Machucar meu coração” di João Gilberto. Me ne sono innamorato. Sono partito da lì e ho capito che dovevo vederlo con i miei occhi, il Brasile. Ci sono andato. Avevo torto. Ve lo racconto qui.
Brasil é uma boa ideia, è la prima scritta che vedo appena metto piede a Salvador. Una città che parla come e più di altre attraverso i suoi muri, che ospitino parole oppure no. “Il Brasile è una buona idea” - scoprirò - non è altro che uno slogan della birra Brahma, la più bevuta del Paese: eppure leggerlo su quella facciata rossa illuminata dal sole tropicale e avvolgente dello Stato di Bahia – intervallata dalle ombre degli ingarbugliati cavi elettrici che aleggiano sulle teste degli abitanti di Salvador – ti fa pensare che dietro ci sia qualcosa di più di una semplice pubblicità.
© R. Scarcella
Tutta Salvador si presta a una doppia, tripla lettura. E chissà quanti altri strati ci sono ancora da raschiare, per chi c’è nato, l’ha vissuta, studiata e perfino un po’ capita. Inizialmente battezzata dai portoghesi São Salvador da Bahia de Todos os Santos, Salvador racchiude troppe cose insieme: vecchia capitale del Brasile, è il porto degli schiavi (oltre un milione e mezzo) che arrivavano dall’Africa; è la culla della capoeira, manifestazione di esuberanza fisica in bilico tra danza e arte marziale; è la città mistica del candomblé, la religione in cui si sono incontrate le divinità africane e il cattolicesimo: chiassosa, coinvolgente e colorata in alcuni momenti, sussurrata, inaccessibile e oscura in altri.
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Se quando arrivi a Rio de Janeiro, tutti, ma proprio tutti, ti dicono che per scoprire il vero Brasile devi visitare Salvador, ci sarà un motivo. Anche perché te lo dicono a San Paolo come a Belo Horizonte, te lo ripetono tassisti, baristi, bianchi e neri, ricchi e spiantati, vicini di posto allo stadio e su autobus a lunga percorrenza, come se si fossero messi d’accordo per fartici andare. Un motivo, insomma, dovrà pure esserci, e infatti c’è. Salvador sembra una città-Stato indipendente da cui l’intero Brasile ha attinto, si è ispirato per assomigliare il più possibile all’idea di sé. Il cantante più amato del Paese, Caetano Veloso – bahiano di Santo Amaro da Purificação (un nome che pare già il titolo di una canzone) – ha detto che “il Brasile non è solo un Paese, è un sentimento. E Salvador è il battito di quel sentimento”. Che suona un po’ come una frase da Baci Perugina, e sicuramente gli è uscito di molto meglio in carriera, però è anche la verità. Quel battito pare sentirlo in ogni angolo della città, a ogni ora: è insieme inquietante ed eccitante, e ti fa capire di essere finito in un posto speciale, capace non solo di custodire l’anima più profonda di un popolo, ma di averla generata.
A única coisa permanente é a mudança leggo su un muro da cui passo ogni giorno per andare dal mio hotel, nel colorato quartiere di Santo Antonio, al Pelourinho, il centro storico. La frase (in italiano, “l’unica cosa permanente è il cambiamento”) ha 2’500 anni ed è in genere – e anche su quel muro – attribuita a Eraclito. E sembra centrare poco o nulla con Salvador, apparentemente permanente, impermeabile alle novità, anche se non è così. La modernità a Salvador ovviamente c’è, ma sembra un’intrusa, un corpo estraneo. Tutto pare arrivare da un’altra epoca: i palazzi e le chiese del Pelourinho, il vecchio faro di Barra (che ogni sera si riempie di coppie e cacciatori di tramonti), le strade acciottolate del Carmo, l’elevador Lacerda, l’ascensore in funzione da oltre 150 anni (immutato da un restauro Art Déco di inizio ’900) che collega la parte bassa della città, sul mare, a quella alta. Salvador è un monumento al passato, un viaggio nel tempo che in alcuni angoli del Pelourinho sembra compiersi: auto e moto vecchie di decenni, insegne cadenti, negozi impolverati, facce da foto virate seppia. Girare l’angolo giusto può regalarti uno scarto temporale che ti fa venire voglia di controllare se c’è un segnale wi-fi in giro per essere sicuro di essere ancora in questo secolo. L’angolo sbagliato può essere fatale, soprattutto la sera, dove basta allontanarsi di pochi metri dai locali e dai coinvolgenti concerti semi-improvvisati in strada per incontrare la persona sbagliata, rischiare il portafoglio, il telefono o peggio. Il Pelourinho ha statistiche da far impallidire il resto del Brasile.
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Su uno dei suoi muri c’è scritto Ser preto e pobre é um risco de vida (“essere nero e povero è un rischio per la vita”). Ecco, a seconda di chi incontri nel Pelourinho è un rischio anche essere bianco e con due soldi in tasca, senza nemmeno bisogno di essere ricco. A me si è avvicinato un paio di volte un tizio male in arnese, vestito quasi di stracci che fingeva di essere amichevole e – gira che ti rigira – finivo per incrociare sempre contro il mio volere. Una sera, in un angolo di una piazza che dava su una discesa in cui in fondo c’erano due poliziotti, ci ha provato, tirando fuori un punteruolo arrugginito e minacciandomi, sfoderando al contempo uno di quei ghigni a pochi denti da pirata. Non era abbastanza vicino per colpirmi e mi è bastato correre qualche metro verso la strada illuminata per non rivederlo mai più. Eppure la cronaca di Salvador è piena di rapine finite male o malissimo, ben oltre il valore di quel che è stato rubato.
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Alla luce del giorno i rischi sono tuttavia minimi, con un po’ d’accortezza (più facile essere rapinati, col proprio consenso, da certi venditori di souvenir). E la vista della grande piazza del Pelourinho (Praça da Sé) è impagabile. Lì, oltre ai colori accecanti che sembrano esistere solo nelle foto ipersaturate di certi profili Instagram c’è anche il buffet della scuola di cucina locale, con la possibilità di assaggiare senza limiti una quarantina di deliziosi (non tutti) piatti bahiani (tanto cocco, frutta tropicale in cibi salati, spezie e pesce) per una cifra abbordabile.
Poco più in là, una stranezza che arriva da un passato più recente e che è diventata ormai un’attrazione turistica: un cartonato di Michael Jackson su un terrazzo. Da lì, la star americana aveva cantato nel video – girato anche in piazza, tra tamburi e vestiti sgargianti - di They Don’t Care About Us. I turisti - quelli brasiliani in particolare - non resistono e pagano per salire sul terrazzo e farsi fotografare accanto al cartonato. Di fronte c’è il museo dedicato allo scrittore Jorge Amado, che però attira meno attenzioni.
Qualche chilometro più in là sorge l’affascinante Igreja de Nosso Senhor do Bonfim: un concentrato di Brasile, con i ragazzini a giocare a pallone in piazza e una sfilza di ex voto e nastri colorati (chiamati fitinhas) appesi alla cancellata della chiesa. C’è chi chiede un miracolo, chi festeggia una guarigione o una laurea, chi l’arrivo di un figlio o la promozione del Vitória, seconda squadra di calcio dello Stato. È un luogo sacro e pagano, non escludente, dove il cattolico può pregare Dio e chi segue il candomblé omaggiare gli Orixa, e cioè le divinità che rappresentano la natura, in mezzo a turisti armati di cellulare.
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Sfinito dal caldo, dai cacciatori di turisti (con e senza punteruolo) e dal peso dei significati di Salvador, cerco sollievo a Rio Vermelho, un quartiere periferico e vivace sul lungomare dove c’è posto per tutti e tutti sembrano conoscersi.
I bar, che vendono birra e cibo locale a poco prezzo, sono strapieni; le strade sono invase da carretti che vendono un po’ di tutto e che mi fanno pensare ci sia una fiera in corso, una festa particolare: e invece è solo una serata qualunque di un fine settimana qualunque in un posto dall’aria felice. Poco oltre c’è un campetto di calcio a picco sul mare con dentro troppi giocatori e - in barba agli stereotipi - troppo poco talento. Talmente poco da annoiarmi presto, girare lo sguardo verso il mare e vedere un gruppo di ragazzi che pesca con lenza e amo, senza canna.
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Sono in piedi su degli scogli che col passare del tempo vengono inghiottiti dalla marea che si alza. C’è anche qualche onda di troppo e non ho idea di come facciano a stare in piedi. Infatti qualcuno rinuncia, altri rimangono. Io resto incantato, facendo iniziare e finire un tramonto semplicemente osservandoli, fino a illudermi che non abbiano più bisogno di alcun supporto per rimanere in equilibrio sull’acqua. So che è un pensiero irrazionale, quasi blasfemo per chi crede. Ma ho imparato – frequentandola – che se c’è un posto al mondo dove la cosa non mi stupirebbe più di tanto è proprio Salvador.