Incontri

La pelle come diario

Intervista a Luisa Ravasi, bleniese tornata in Ticino dopo sette mesi di viaggio itinerante in Indocina, alla scoperta delle tradizioni del tatuaggio

(© Luisa Ravasi)
25 maggio 2025
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Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

C’è chi, come appassionato cartografo, traccia sulla propria pelle una mappa esistenziale, con un po’ di geografia esplorata e poi facce, incontri, ricordi ed esperienze vissute, codificati in simboli che raccontano una storia individuale che, per vie traverse, si interseca con quella umana. Fra questi ho conosciuto Luisa Ravasi, una giovane bleniese di ritorno in questi giorni da un viaggio in Indocina, dove è andata alla scoperta di origini, tecniche e significati di quella pratica universale e antica quanto il mondo che è il tatuaggio.

La malattia del viaggio

Le piacciono il verde e l’arancione, mangia con gusto il polipo e ama la montagna; la fanno imbestialire le ingiustizie, soprattutto quelle compiute nei confronti di persone indifese. Le danno un senso di pace e tranquillità le montagne, le valli, le foreste, soprattutto quelle di casa, dove ricarica le energie. Il tatuaggio più vicino alla sua essenza è un guanaco fuso con un furgone Volkswagen che ha su una gamba e il ricordo a cui tiene di più – e in cui si rifugia – è un luogo: la sua cascina in Val Pontirone. Più di ogni altra, la parola che meglio la rappresenta in questo momento della sua vita è libertà.

Con passi veloci e con la sua guida, ripercorro fugacemente la storia di Luisa Ravasi. «Sono nata a Bellinzona nel 1995, sono cresciuta in Valle di Blenio» e, quando non è in giro per il mondo, vive a Serravalle. Dopo un anno di psicologia a Friburgo – materia che «mi piaceva tantissimo, ma non credo avrei apprezzato altrettanto fare la psicologa» – ha fatto ritorno in Ticino dove ha iniziato a lavorare nel laboratorio giubiaschese della Fondazione Diamante: «Ci sono stata per otto mesi, in cui ho capito che amavo lavorare con le persone, ma avevo bisogno di altro e mi sono perciò decisa a fare la maestra». Prima del percorso di abilitazione, Luisa è partita per il suo primo grande viaggio: «Tre mesi in Asia». La malattia del viaggio è ormai contratta e fa sì che dopo il primo anno di scuola sia determinata a ripartire, questa volta con destinazione Sud America, per un intero anno. Rientrata a casa, ha terminato la formazione e lavorato per quattro anni come maestra di scuola elementare: «Il primo anno ero a metà tempo, così da poter averne altro da dedicare ai miei progetti artistici. È stato in quel periodo che ho iniziato a tatuare, cimentandomi con la macchinetta prestatami da mio fratello. Ho imparato da sola, tatuandomi».

Così è cominciata.

Trovare la propria strada

Oltre ad amici e conoscenti, Luisa inizia a tatuare anche sconosciuti che vengono da lontano e a quel punto comprende che le possibilità sono due: intraprendere il tatuaggio seriamente oppure lasciar perdere. Sulle prime, un po’ si spaventa e così decide di metterlo da parte e dedicarsi alla sua professione, svolgendo diverse mansioni. A quel punto, ricorda, la sua vita era “allineata”: aveva un lavoro, conviveva con il suo ragazzo storico, insieme avevano preso casa… «Avevamo deciso, in grandi linee, la nostra vita ed ero felice, ero grata e lo sono tuttora per la mia esistenza, per il mio lavoro». Poi la sua quotidianità è cambiata di colpo, si è separata dal compagno ed è iniziato un periodo difficile, in cui a rimetterci è stata soprattutto la salute. «Avevo capito che dovevo rallentare e prendermi del tempo per arrivare infine a un equilibrio sostenibile che mi facesse stare bene».

L’idea del viaggio iniziava a farsi strada, ma, come mi racconta, la sua volontà era partire una volta che si fosse rimessa in sesto. «Ci ho messo più di un anno a prepararmi e partire per questo viaggio, al fine di realizzare qualcosa di nuovo, un progetto legato alla creatività che era lì, sopito, da tempo».

Nell’autunno del 2024, è partita prendendosi due anni di tempo per viaggiare in diversi Paesi (seppur non in modo continuativo), partendo da Est. Alla spicciolata, ecco l’elenco dei posti in cui è stata negli ultimi sette mesi: Thailandia (dove ha lavorato come volontaria in un ostello di nomadi digitali prima, e in un progetto di permacultura poi»), Laos, Cambogia, Malesia, Filippine, Borneo, India. Sebbene si dedichi a molteplici possibilità creative (dalla pittura al macramè, passando per i graffiti), parte principale di questo viaggio di esplorazione e ricerca è la scoperta della tradizione del tatuaggio, che non avviene “solo” visitando tribù, ma altresì affidandosi a una nutrita letteratura che dall’archeologia arriva all’antropologia.


© Luisa Ravasi
Luisa con i Mentawai

Per sommi capi

Oggi, a molti, i tatuaggi paiono perlopiù un vezzo estetico, una moda; generalizzo, consapevole che cascarci sia arbitrario e foriero di equivoco. Andando però alle origini della pratica (sommariamente e senza la pretesa di esaustività, beninteso) si scopre che, in tante culture al mondo, l’usanza era ed è un rito dalle funzioni molteplici con significati profondi che possono essere identitari, di passaggio, magici, terapeutici (chi non ricorda la mummia del Similaun?), curativi, comunicativi, protettivi, apotropaici e, sì, pure decorativi.

Benché in area occidentale il tatuaggio abbia vissuto anni e anni bui, soprattutto con l’avvento del Cristianesimo che lo considerava un segno deplorevole e simbolo di peccato (secondo la Genesi, il primo marchiato è stato Caino, segnato a vita per aver ucciso suo fratello Abele), anche nella nostra parte di mondo tatuare era una consuetudine diffusa. La religione in generale ha inferto un duro colpo all’usanza, tuttavia già per greci e romani questa non era una pratica virtuosa: ai loro occhi i popoli che usavano tatuarsi erano considerati barbari; inoltre nell’Antica Roma le persone marchiate erano spesso schiavi o fuorilegge. Un binomio quello di tatuaggio e criminalità (si pensi alle teorizzazioni preconcette e stigmatizzanti dell’antropologia criminale ottocentesca) che ne ha dato e ne dà una connotazione negativa, che ancora ai giorni nostri sussiste.

Altri mondi. Un solo mondo

Tuttavia, quando si incide la propria pelle, è tutta un’altra storia. «I tatuaggi che ho sono capitoli della mia vita e anche dei ‘segnaposto’ dei luoghi in cui sono stata, di momenti che ho vissuto. Sono come un diario». I primi tatuaggi se li è fatti da sola (già l’ho scritto) ed erano prevalentemente “decorativi” un po’ per ragioni economiche («ero ancora studentessa»), un po’ perché aveva le idee ben chiare circa i soggetti. Luisa spiega poi che col tempo anche il significato è mutato, acquisendo sempre più densità e peso: «Sono legati all’identità, alle radici, alla storia…» personale certo, ma pure collettiva, perché inseriti in un sistema universale e multiforme: un bacino di memoria che trascende tempo e spazio. Questo interesse direi etnologico ha portato Luisa a visitare, durante il viaggio intrapreso, alcune tribù dell’Indocina, le più isolate, dove è ancora possibile osservare una pratica tatuatoria tradizionale. L’intento è «scoprire e vedere qual è il legame che le persone hanno mantenuto, nel tempo, con il tatuaggio, soprattutto in quei contesti in cui la tradizione antica (con le sue tecniche) è ancora viva». Trascorrere del tempo nelle tribù le ha permesso di vivere in prima persona il rituale e comprenderne il significato e la forza, che oltrepassa la geografia: «Più viaggio attraverso varie culture completamente distaccate l’una dall’altra, più ne percepisco le analogie. Mi viene in mente per esempio che il tatuaggio thailandese ha una funzione magica e protettiva e così lo era spesso anche nell’Antico Egitto». Insomma, differiscono il modo e il segno, ma le funzioni restano comuni, universali…

Interagire con le tribù non è sempre scontato, alcune – riferisce – non accettano estranei e questo va rispettato. Laddove si riesce, bisogna essere pazienti, prendersi il tempo per conoscere e farsi conoscere, instaurando un rapporto di fiducia reciproca. «La presa di contatto ogni volta è differente, può avvenire su consiglio, ma anche attraverso incontri fortuiti o passaparola; grazie al web o stringendo rapporti di amicizia con tatuatori locali. Sono stata accolta in famiglie, vivendo con loro per giorni e giorni, sentendomi a casa. A coloro che mi hanno accolto ho sempre lasciato qualcosa realizzato artigianalmente da me». E a chi glielo chiede, assicura senza batter ciglio che non si è mai sentita in pericolo.


© Luisa Ravasi
Con gli Iban

La spinta Wanderlust e la controspinta Heimweh

La giovane donna non fatica ad ammettere che, dall’altra parte del mondo, le sia mancata casa: «Sento forte il legame con le mie radici, ma sono consapevole che per realizzare il mio progetto la distanza va affrontata. Preferisco avere malinconia, ma sapere che sto vivendo il mio sogno, facendo esperienza di momenti incredibili che mi rendono felicissima, piuttosto che rinunciarvi. Questa è stata una delle decisioni migliori della mia vita».

Con Mentawai, Iban e Igorot

A Luisa ticino7 ha proposto di redigere una serie di tre reportage “da dentro”, raccontando la sua esperienza in tribù differenti: i Mentawai in Indonesia, gli Iban (i cacciatori di teste del Borneo malese) e gli Igorot nel Nord delle Filippine, che saranno pubblicati nei mesi estivi. Nel frattempo è possibile conoscere le sue peripezie grazie al suo profilo Instagram: ralu_in_cammino, in attesa che riparta alla scoperta di altre tradizioni in giro per il mondo.

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