Intervista all'architetta e artista tessile Victoria Diaz Saravia, che racconta la sua storia, fra Argentina e Ticino
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Essere nata in Argentina nel 1975 significa già di per sé avere una cicatrice. E Victoria, che mi ha stupita per la sua bellezza calda e solare, con i capelli selvaggi e il sorriso dolcissimo, accetta di raccontarmi la sua storia. Davanti a un tè e dei biscotti. Parla, parla, come se non ci fosse più dolore: «L’amore è stato più forte», dice. Lo ha attraversato e adesso, quella storia, lei è in grado di appoggiarla lì, accanto al vassoio dei pasticcini, delicatamente. Perché ormai fa parte di lei, del suo Paese, di quello che hanno vissuto.
«Sono nata in aprile a Tucumán, in una casa con un fratello di un anno e due genitori studenti in Architettura, militanti di sinistra. Mio papà e mia mamma si erano conosciuti al Partito rivoluzionario dei lavoratori: facevano politica, studiavano, lavoravano, erano giovanissimi e volevano dei bambini. Si amavano tanto, lo so dalle fotografie e dai racconti dei miei nonni, degli zii e poi lo so e basta. Una sera, io avevo un anno e cinque mesi, sono venuti i militari a prenderli. Per fortuna c’era una ragazza con me e mio fratello, una specie di tata che dava una mano in casa; solo perché c’era lei non hanno portato via anche noi bambini. C’è stata una scena di violenza, che io non ricordo e che mio fratello ha ricordato solo molti, moltissimi anni dopo, al processo. Non abbiamo mai più rivisto i nostri genitori. Sono spariti così. È stato un inizio di vita tragico. Ma poi sono arrivati i nonni, prima quelli materni, poi quelli paterni. Noi siamo cresciuti attorniati da due grandi famiglie che ci volevano bene e il loro amore era ancora più intenso perché riguardava anche i nostri genitori.
© Ti-Press / Elia Bianchi
Credo che questo ci abbia salvati. Me ne accorgo adesso: siamo stati cresciuti da gente che aveva perso i figli, i fratelli, una sorella. Che sforzo, trovare quella forza. I bambini invece hanno risorse innate: io ho ricordi felici, prendevo corsi di inglese, di danza, ridevo come una matta con le amiche. Da piccola non sapevo cosa fosse successo ai miei genitori, quando me lo chiedevano dicevo che erano morti in un incidente. Addirittura, prima, da piccolissima, ci avevano raccontato che erano andati via a studiare. Poi però mio fratello si rifiutava di andare a scuola e la psicologa aveva suggerito ai miei nonni di dirgli la verità.
E lui è venuto subito a raccontarla a me: “Mamma e papà sono morti”. La scuola non era un luogo pericoloso dal quale non si torna. Erano altri i luoghi da cui non si tornava; in Argentina in quegli anni aleggiava la paura, vivevamo in una dittatura. Avevo altri zii che militavano, uno che era partito per la resistenza e non era più tornato. La polizia faceva paura, le manifestazioni mi spaventano ancora adesso, e per anni se in dogana mi chiedevano il passaporto sussultavo. È così. Ce l’ho dentro, è un sentimento che mi abita e mi appartiene, faccio fatica a togliermelo di dosso. Alle manifestazioni ci vado lo stesso, con i miei figli; ormai ho il doppio della loro età, come ho il doppio dell’età di mio papà e mia mamma, ed è bello che la gioventù si batta per quello in cui crede. Attraverso i miei ragazzi capisco meglio i miei genitori.
La verità l’ho scoperta a 10 anni. La famiglia paterna non parlava mai di quello che era successo e noi facevamo poche domande. Quando una tematica non si deve toccare, i bambini lo sentono. Ma nell’altra famiglia, quella materna, quella più militante, era tornata una zia dall’esilio e la mia cuginetta mi ha fatto sapere: “Sono stati i militari a portare via i tuoi genitori”. È iniziato un nuovo capitolo: i miei genitori non erano morti, erano spariti, insieme ad altre trentamila persone. E la nonna paterna mi ha detto: “Ogni giorno aspetto che suoni il campanello e che alla porta compaia tuo padre”.
© Ti-Press / Elia Bianchi
Ma sai cosa? Mia zia Adriana, la sorella minore di mia mamma, mi ha mostrato le fotografie dei miei genitori e mi ha detto: “Tu le hai sempre viste, Coqi, te le abbiamo sempre mostrate, non ti abbiamo mai raccontato bugie. Sapevi tutto”. Forse la mia mente aveva bloccato queste informazioni e poi, quando ero pronta, ho visto per la prima volta il volto di mia madre.
© Ti-Press / Elia Bianchi
Crescendo, sono successe tante cose. Per esempio, negli anni Novanta, era già finita la dittatura, è successo che nel nostro palazzo, esattamente al piano sopra di noi, è venuto ad abitare l’uomo che era governador de facto quando hanno sequestrato i miei genitori. Di lui avevo terrore: lo sentivo camminare, lo incrociavo al pianterreno, una volta me lo sono ritrovata in ascensore. Faceva finta di niente, ma lui sapeva chi eravamo, perché mio nonno era andato a trovarlo moltissime volte per chiedergli di suo figlio. Queste persone non potevano essere processate perché fino al 2005 c’erano due leggi che proteggevano i militari e chi “aveva dovuto loro obbedienza”: erano tutti a piede libero in mezzo a noi. Poi, quando queste leggi sono state dichiarate incostituzionali, ci hanno chiamati a testimoniare ed è lì che mio fratello ha raccontato per la prima volta quello che aveva visto nella nostra casa.
In quegli anni, a Tucumán, avevano ritrovato il pozzo dove si diceva che i militari gettassero i cadaveri dei desaparecidos. Hanno scavato per ventun anni, hanno fatto gli esami del Dna a tutti noi parenti, e hanno ritrovato i resti di 149 persone. Nel 2015 ci hanno chiamati per restituirci l’anca di mia madre, con un buco di pallottola. Un anno dopo ci è arrivata la mandibola di mio padre, bucata anche lei. Si sono fatti i funerali, prima uno e poi l’altro.
Ogni volta si riapriva il cassetto dei ricordi, ma a quei tempi, con me, mio fratello e tutte le zie e gli zii, piangevano ormai anche mio marito e i miei figli, che venivano con me dal Canton Ticino.
A 18 anni, mi ero iscritta all’università, prima a Giurisprudenza, poi a Ingegneria civile. Ogni giorno passavo davanti alla facoltà di Architettura dove avevano studiato mia mamma e mio papà; guardavo le maquette, i modellini, gli studenti e avevo voglia di essere lì anche io. Finché un giorno uno studente mi ha detto: “Ma perché non vieni qui anche tu?”. Erano anni che sfuggivo a questo richiamo, perché pensavo fosse solo un modo per avvicinarmi ai miei genitori. Sono andata in segreteria per chiedere quanto fosse complicato cambiare curriculum. Ho detto il mio cognome: Diaz Saravia. Il segretario è impallidito. “Che parentela hai con José?”. “Sono sua figlia”. “Lunedì, se vuoi, tu cominci Architettura”, mi ha detto. Era stato molto amico di mio padre.
Avevo sempre sognato di andare all’estero durante gli studi e quando ho sentito parlare dell’Accademia di Mendrisio ho provato a vincere una borsa di studio. Mendrisio era un sogno: lì insegnavano i docenti che in Argentina studiavamo sui libri; lì c’erano pochi studenti ben seguiti e ognuno aveva il proprio tavolo con la propria lampada; lì, a Filosofia c’era Cacciari, a Storia dell’arte Harald Szeemann, personaggi così.
Non ho vinto la borsa di studio, ma mi hanno detto che avrei potuto iscrivermi, pagando io la retta, che però era molto alta. Come fare? Ed ecco che in quei giorni esce una notizia: lo Stato argentino aveva deciso di dare un indennizzo ai figli dei desaparecidos e, con quei soldi, ho comprato un biglietto e mi sono pagata la scuola. Sono bastati per due anni, il terzo ho ricevuto la borsa.
A Mendrisio ho piantato dei semi. Ho frequentato l’atelier di Peter Zumthor che ci ha trasmesso un modo di progettare che ancora porto dentro: prima di creare nuovi spazi, ci ha insegnato a cercare nei ricordi quei luoghi e quelle atmosfere che ci hanno fatto stare bene. Il nostro vissuto diventava un posto dove pescare idee. Io ricordo la luce; il cortile di casa della nonna, con il pergolato di vigna e il sole che passa tra le foglie.
All’Accademia ho conosciuto Martino, che da piccolo aveva vissuto in Perù e quindi parlava spagnolo. Ci siamo sposati nel 2001, mentre io studiavo ancora; l’anno seguente è nato il nostro primo figlio, Siro. Sono tornata subito in Accademia, con il bebè nella culla. Dopo qualche mese ero di nuovo incinta: eravamo innamorati, credevamo tanto nella vita, volevamo un altro bambino ed è arrivata Matilde. Con lei in pancia e Siro sulle ginocchia ho preparato il diploma, con lei appena nata e Siro che correva ho sostenuto la tesi. Lacrime e latte. Quanta stanchezza, quanta felicità. Però ho preso un premio come miglior progetto di sviluppo sostenibile e ho cominciato a lavorare in Accademia, come assistente di progettazione.
Qualche anno dopo ho progettato l’abitazione per mia zia Adriana, a Tucumán, sul terreno dove c’era la casa costruita dal mio bisnonno, dove avevano vissuto i miei nonni, mia mamma, io. Insomma, bisognava tirar giù la storia di famiglia per costruirne un’altra. Gli operai hanno ricostruito la nuova casa con gli stessi mattoni delle vecchie mura, ricombinandoli in un’altra forma, con cortili, spazi esterni, e luce. Con quel progetto ho vinto lo Swiss Art Award di Architettura...
Amo la stoffa. Ho sempre cucito, fin da bambina. Ho fatto corsi di sartoria, al Politecnico di Milano ho studiato design per bambini. Ho creato un mio marchio di vestiti e giocattoli per bambini: Coqi, il mio soprannome dell’infanzia. Nella casa dove abitavamo prima, a Mendrisio, avevo anche un piccolo negozio. Poi durante il Covid mi è successa una cosa.
© Ti-Press / Elia Bianchi
Ho guardato negli occhi quel sogno e ho capito che aveva qualcosa da dirmi: il 18 gennaio del 2021 ho pianto a dirotto mentre cercavo di spiegare a mio marito che volevo fare arte tessile. E gli dicevo: “Non so perché piango”. E lui mi ha risposto: “Forse perché hai capito qualcosa di importante”.
Ora ho cinquant’anni e penso che nella vita a un certo punto si abbia bisogno di stare in contatto con sé stessi, capire chi si è e cosa si è venuti a fare su questa Terra. Adesso la mattina scendo nel mio atelier, nella nostra casa a Mendrisio, riattata da noi, con tanta luce d’estate e tante piante; prendo delle stoffe, l’ago, il filo. A volte aggiungo, più spesso tolgo. Esploro il vuoto, la leggerezza. Mi commuovono certe righe, come quelle dell’artista Agnes Martin. Ripesco idee nel passato e rivedo mani in movimento. Mi sento attraversata dal mio lavoro, come se non fossi del tutto io a decidere, mi stupisco di quello che accade. L’arte mi mette in contatto con l’intuito. Con l’impalpabile, l’invisibile. Mi sento piena di presenze, non sono mai sola. Ora espongo in una galleria, la Doppia V a Lugano. E sto illustrando un libro per bambini, che parla della pittrice ticinese Anita Spinelli.
© Victoria Diaz Saravia
Victoria Diaz Saravia - Senza titolo 2021 - 6 x 23 cm - lino e filo
Sai, mi sorprendo perché quando lavoro, la mia storia è sempre lì con me. Vedo la mia tristezza di bambina, le vite spezzate dei miei genitori, dei loro compagni, dei miei nonni. Ma tutto questo non mi lascia pesante. Anzi. Mentre creo, la tristezza svanisce, ogni volta ne estirpo un pezzetto, lo libero nell’aria, nel bianco, in quel vuoto dove alla fine torneremo. Io credo che questo lavoro abbia a che fare con tutte quelle donne della mia infanzia, che ho sempre visto in movimento: le mani loro, le manine mie, che rammendavano qualcosa, che facevano il pane, che costruivano il vestitino di una bambola, che sferruzzavano, tagliavano, impastavano, mescolavano, trasformavano in qualcosa di bello. E intanto si salvavano. Sì, io credo che le donne abbiano un dono: sono capaci, sempre, di trasformare la vita in bellezza».
© Victoria Diaz Saravia
21 - Victoria Diaz Saravia - Te deseo un patio - installazione - lino e filo
www.victoriadiazsaravia.com; profilo IG victoria.diaz.saravia