Madeleine Boll è la pioniera del calcio svizzero femminile. Tesserata sin da bambina nel Sion (grazie a una falla burocratica), ci racconta la sua storia
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Nata l’8 luglio 1953, Madeleine Boll è stata la prima calciatrice svizzera a ottenere una regolare licenza per poter giocare. Grazie a un errore. Tesserata la prima volta nel Sion che era una bambina, la centrocampista fin da allora, con determinazione, ha coltivato la passione per il calcio, infrangendo non pochi tabù di una società che, a quell’epoca, non era pronta ad accogliere le donne sul campo di pallone. Ecco la sua storia.
Ciglia lunghe, occhi sporgenti e capelli ribelli alla Titeuf. Un cucciolo di San Bernardo di nome Maddli, che in questo mese di luglio anima i principali stadi rossocrociati. Cane da ricerca, il gigante buono delle Alpi è contraddistinto da nobiltà d’animo, coraggio e affidabilità. Tutte qualità che si possono rispecchiare in Madeleine Boll, pioniera del calcio femminile in Svizzera.
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A Ginevra con la mascotte Maddli
La scelta di «dedicarmi la mascotte della rassegna continentale mi ha commossa. È magnifico, un onore. Un riconoscimento europeo, e non soltanto locale, simbolo del nostro Paese nonché del cantone in cui sono nata. Ogni anno contribuisco inoltre a sostenere la fondazione Barry». Non è finita qui, perché quand’era più giovane la sorella minore «era solita ripetermi che mi piaceva ‘essere un San Bernardo’ e dunque aiutare il prossimo». Un cuore grande, sogni ancor più grandi. Madeleine non ha mai giocato di rimessa, abbattendo numerose barriere culturali e ottenendo una licenza storica. Licenza che nell’ormai lontano 1965 scatenò il pandemonio a causa di una falla burocratica.
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Licenza di gioco
Fin da bambina dispensa palloni nella zona mediana del campo. «Non ho mai scelto di giocare a calcio, giocavo e basta. Mamma e papà erano di larghe vedute, dunque mi permettevano di seguire questa mia passione». Più di sessant’anni fa, corner e punizioni erano però considerati dominio maschile. «Nel paesino in cui ho trascorso l’infanzia, cioè Granges, non ho incontrato grandi difficoltà. Sì, non era una circostanza normale, ma la popolazione locale si è dimostrata piuttosto tollerante».
Ogni giorno che passa Madeleine affina le sue capacità, finché un compagno di classe approda nel Sion. La squadra del cuore della nostra interlocutrice. È l’incipit di una storia ricca di episodi, che nemmeno le migliori pellicole hollywoodiane avrebbero mai potuto immaginare.
L’allenatore del settore giovanile biancorosso, René Maye, accetta infatti di vedere all’opera la romanda. Una gonna «a righe non era tuttavia la mise più appropriata, così mi ha proposto di ritornare in pantaloncini. Era meraviglioso». Da poco conquistato il suo primo trofeo, la Coppa Svizzera, il Sion affronta il Galatasaray in ambito europeo. Il 15 settembre 1965 i riflettori sono comunque tutti puntati su Madeleine, che, ahilei, compare sulle principali testate del pianeta. Ricevuta la sua licenza di gioco nonostante sia una ragazza, la giovane scende in campo nel match antipasto di quel mercoledì. Circa diecimila spettatori attoniti. La Svizzera ha il suo Pelé, una donna titola un quotidiano sudamericano mentre la notizia travalica ogni confine nazionale, tuonando addirittura fino in Gabon.
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Il trafiletto dove la comparano a Pelé
Un’eco incredibile, che prende in contropiede la Federazione. «È stato qualcosa di straordinario, eccezionale: il polverone mediatico ha indotto l’Asf a controllare il regolamento e precludermi la possibilità di giocare». Secondo le normative, mostrare il corpo femminile “è poco decoroso. Nella lotta per il pallone la grazia scompare, l’anima subisce inevitabilmente un’alterazione”. Le donne non sono insomma benvenute nella ristretta cerchia dei pallonari. A soli dodici anni, essere spogliata di quella licenza, «è stata una catastrofe. Non riuscivo a capirne il motivo, e neppure i miei compagni di scuola. Ero capace di eseguire tutti, e ripeto tutti, i fondamentali. Che fosse la ricezione o il palleggio». Un duro colpo proprio nelle battute introduttive della sua carriera, in cui avrà comunque il modo di riscattarsi assumendone la regia. Il riferimento non è solo alla posizione occupata in campo. Già, perché Madeleine trova spazio nel più benaccetto Tournoi des écoliers di Losanna. Un torneo fino a quel momento frequentato solo da ragazzi. Il papà «mi conduceva in auto fino a Sion, dove mi consegnava nelle fidate mani del controllore. Finita la tratta in treno, nella città olimpica, una delle responsabili mi accompagnava nei pressi della Pontaise». Una prassi durata quasi due anni. Finché, ormai sedicenne, deve nuovamente interrompere la sua carriera poiché il mercoledì pomeriggio deve sostenere i corsi di economia domestica. Niente riesce però a placare la passione calcistica della calciatrice, che riscrive il copione organizzando il primo incontro ufficiale nella storia del Canton Vallese disputato fra sole donne.
È il 1968 quando le cassiere della Migros di La Chaux-de-Fonds affrontano le cameriere del bar dell’ex portiere della Nazionale rossocrociata Léo Eichmann. Più di duemila spettatori accorsi. In tutto il Paese iniziano a spuntare a macchia di leopardo formazioni (non riconosciute): «E tre studentesse mi hanno dunque proposto d’istituire una squadra femminile, naturalmente il Sion, di cui mio papà era presidente. Come pure dell’Associazione romanda di calcio. A centinaia di chilometri Trudy, Ursula e Franz Moser avevano invece fondato l’Fc Zurigo». Un colpo di scena rilevante, sicché il 24 aprile 1970 i due nuclei familiari uniscono le forze ponendo le basi del massimo campionato muliebre. È durante questo periodo che Madeleine sbarca nel Belpaese, difendendo i colori del Gommagomma Meda, grazie alla mediazione di un legale ticinese. La madre «aveva custodito il trafiletto di giornale, in cui l’allora presidente del club Valeria Rocchi esponeva il potenziale del calcio femminile italiano. Da noi le donne non erano ancora legittimate a votare, eppure sia mamma che papà mi hanno accompagnata fino a Milano».
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Nel novembre del 1970
Una sessantina le ragazze, qualità inferiore rispetto al Sion. «Non avevo nessuna intenzione di rimanere, ma ci hanno suggerito di ritornare un’altra volta: le giocatrici erano scese a trenta e il tenore aumentato», mentre la terza capatina in territorio meneghino riesce ancor di più a stuzzicare il palato. A sedici anni e mezzo, e senza un titolo di studio in mano, la scelta è delicata. La famiglia Boll non corre il rischio e rifiuta l’offerta, ma il Gommagomma concede alla rossocrociata «la possibilità di effettuare questa lunga trasferta solo in occasione delle partite. E, dunque, ho trascorso cinque stagioni a far la spola fra Milano e il Canton Vallese».
Durante la settimana frequenta la scuola di commercio e si allena nel Granges, che milita nella Terza Lega maschile, nel weekend sfida giocatrici del calibro di Elena Schiavo e Luciana Meles. Affettuosamente chiamata la montagna bionda, riferimento a statura e chioma, Madeleine si conferma un’eccellente centrocampista munita di una conclusione micidiale. Tant’è che si mette in bacheca due campionati e una Coppa Italia. Fra i confini nazionali, invece, si laurea in seguito due volte campionessa e conquista in altrettante occasioni la Coppa Svizzera. Una rassegna nata esattamente cinquant’anni or sono grazie all’ennesima intuizione del padre, che nella medesima stagione consegna il trofeo nelle mani della figlia.
Nella pellicola che ripercorre la carriera della romanda è ben impressa pure la parentesi della Nazionale rossocrociata. E, in primis, l’esordio il giorno del suo diciassettesimo compleanno. Sì, perché l’8 luglio 1970 la Svizzera comincia il suo cammino in quella che sarà la prima Coppa del mondo nella storia del calcio femminile. Non ufficialmente riconosciuto dalla Fifa, il torneo è fin da subito macchiato e condizionato da qualche decisione piuttosto discutibile. Il comitato intende monetizzare sulle giocatrici e «condurre l’Italia sino alla finalissima. Siamo dunque state volontariamente opposte a loro in entrata di manifestazione: ci reputavano piuttosto scarse, battibili. Non hanno però considerato il nostro carattere, la nostra combattività». La compagine azzurra si dimostra sorpresa, incapace di mettere in apprensione le confederate. Ogni volta che bomber Cathy Moser si affaccia minacciosamente in zona sedici metri, l’arbitro fischia così fuorigioco. Nella pausa l’allenatore delle rossocrociate medita pure di operare un cambio, «mai effettuato, poiché il passaporto della nostra compagna di squadra era letteralmente sparito nel... nulla. Forse il punto del kappaò (realizzato da Claudia Avon, ndr) non aveva neppure superato la linea di porta sicché la poc’anzi citata Moser aveva salvato il pallone grazie a una bicicletta. I giornali avevano evidenziato la stessa faziosità, ma, alla fine, abbiamo comunque perso.
È stata una grande delusione, solo parzialmente compensata dalla straordinarietà della situazione. Ad esempio, trascorrere un giorno in treno direzione Salerno». Un match per di più non riconosciuto dall’Asf, come il secondo, in cui la Nazionale s’impone 9-0 sull’Austria in quel di Sciaffusa.
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La Nazionale svizzera versione 1972
Due anni più tardi Boll e socie disputano finalmente il primo incontro ufficiale. Una ricorrenza commemorata in occasione dell’ultima sfida di Nations League, in cui Madeleine ha chiamato a raccolta le pioniere della selezione rossocrociata.
Un decennio e più di sacrifici, come il giorno del matrimonio del fratello maggiore. «L’indomani, di buon’ora, ho rammassato parastinchi e pantaloncini raggiungendo in treno Padova. Grazie a Dio ha sposato una ragazza di Locarno e le celebrazioni hanno dunque avuto luogo sulle rive del Verbano», confida sorridendo. Pure lui calciatore, ma di ruolo estremo difensore, si mette in evidenza sui campi della serie cadetta «accarezzando perfino l’idea di giocare in Ticino, nel Bellinzona, ma tutto si arenò causa infortunio».
Il capitolo finale della carriera di Madeleine non è imposto da qualche acciacco, bensì dall’ormai scarsa motivazione. E, non da ultimo, dalle molte rinunce. All’età di appena 25 anni saluta così definitivamente le competizioni, continuando a bazzicare il mondo del pallone in qualità di membro di comitato dell’Associazione vallesana e in seguito della Lega Amatori. «Ho inoltre avuto l’onore di essere nominata capodelegazione in rappresentanza della Federazione. Un incarico che mi ha permesso di conoscere parecchie giocatrici, ad esempio Noelle Maritz», attualmente laterale sinistro della Nazionale.
Da quel ‘se questa ragazza segna, mi faccio monaco’ pronunciato dal portiere di una squadra rivale a scardinare numerose barriere culturali e sociali. Cosa significa essere la pioniera del calcio femminile in Svizzera? «Beh, pensando a tutto quello che ho passato, sono più che orgogliosa di essere una delle artefici di questa storia. Il cammino è stato lungo, burrascoso. È stata infatti la qualificazione alla Coppa del mondo del 2015 a porre finalmente l’accento sulla nostra selezione». I media hanno cominciato a essere più interessati e, ora, altre giovani vallesane come Iman Beney e Naomi Luyet cercano di ripercorrere le orme di Madeleine. Fra la montagna e la corale La Chanson de Vercorin, l’ormai 72enne non ha mai smesso di seguire il calcio e soprattutto il Sion. Una passione alimentata ogni giorno e che ben affiora nel raccontare la sua carriera. Fino a qualche stagione fa, le principali emittenti televisive «trasmettevano solo le competizioni maschili. Adesso la proposta è duplicata, perciò fatico a tenere il passo», ride. Non bisogna inoltre dimenticare le trasferte, che siano in Canada o nei Paesi Bassi: «In occasione dell’ultima rassegna continentale femminile ho trascorso una settimana nel Regno Unito. Ho invece rinunciato alla Nuova Zelanda, complice la distanza». Tutto a titolo privato, come l’anno scorso in Germania. Accompagnata dal padre, nel 1994 ha perfino assistito «alla Coppa del mondo in America. Un’esperienza indimenticabile. Mio papà ha cercato di esaudire ogni mio desiderio, progettando e addirittura realizzando il campo da calcio di Granges». Quel campo in cui è iniziata l’incredibile storia di Madeleine, a lei da poco dedicato. Un onore che difficilmente spetta «a persone ancora in vita e, men che meno, a calciatrici».
© M. Boll
Con il padre, al centro
Spesso deriso e poco considerato, il calcio muliebre si è lentamente ricavato il proprio spazio all’interno della società. Le giocatrici sono raddoppiate, la mentalità evoluta... E pure l’interesse di sponsor e pubblico è aumentato.
«La mia più grande soddisfazione – conclude Madeleine – è che oggi esistono dei club in cui le ragazze possono continuare a coltivare questa passione. Un boom che la rassegna continentale acuirà ulteriormente, dunque sarà fondamentale cercare di sopperire alla cronica penuria di terreni e allenatori». Nessuna licenza ha più bisogno di essere concessa «a seguito di una falla burocratica, ma la strada da percorrere rimane lunga. Il calcio è tuttavia calcio, che sia maschile o femminile».