Per la fotografa ticinese Aline d’Auria, è luogo della memoria, dove andare a indagare il passato e far riaffiorare una storia personale e familiare
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
La montagna è, per la fotografa ticinese Aline d’Auria, luogo della memoria, dove andare a indagare il passato e far riaffiorare una storia personale e familiare che ci parla, al contempo, di tutte le storie. Questa su a ricerca è germinata in un’opera artistica che è esposta in questi giorni alle Giornate della fotografia di Bienne.
Chi nasce in montagna ha un senso di appartenenza diverso da chi cresce in città? Ho sempre pensato che in città le strade, le case, il paesaggio urbano cambiano così in fretta che uno non ci si ritrova più. Se sta via dieci anni dal quartiere in cui è cresciuto, è facile che quando torna deve scoprire tutto come se fosse nuovo.
Invece, chi abita in montagna, non ha di queste sorprese, o sì può averne, ma ciò che più conta, ciò che sovrasta l’opera umana, resta immutato. Il Pizzo di Claro, il Cervino, il Monte Rosa saranno sempre lì. Il profilo di una valle non viene deturpato facilmente.
E Aline d’Auria riflette anche su questo nel suo lavoro fotografico (Se chiudo gli occhi vedo la montagna), che da oggi (sabato 3 maggio 2025) porta al Festival di Bienne, dopo averlo già esposto a Casa Pessina (Museo d’Arte di Mendrisio). Aline d’Auria vive a Chiasso, è cresciuta a Lugano, ha studiato a Vevey, Amsterdam, Ginevra e New York. In questa ricerca artistica però è andata a pescare in un luogo della memoria familiare più antica, un villaggio dei Grigioni dove è cresciuta sua nonna. Sils, in Alta Engadina, sotto il Piz de la Margna: una montagna bellissima ai piedi della quale è cresciuta con sofferenza, durezza, sacrificio. Storie di una volta, ma che arrivano fino a lei, fino a noi, ai nostri giorni.
© Aline d’Auria
Ritratto della fotografa ticinese
Aline ha sempre avuto un’attrazione per la montagna e qui vuole esplorare la sua storia: entra negli archivi della famiglia materna, risale di un secolo e mezzo. Trova immagini di bisnonni severi e anche un quaderno: la bisnonna scrive. Prende appunti da riviste dell’epoca. Si dà regole da sola. “Sai domarti?”.
“Sai accettare che tuo marito se ne vada se il bambino nella culla lo disturba col suo pianto?”.
“E sai riaccoglierlo dopo?”.
“Saprai dire addio alle tue amiche ora che ti sposi?”.
Aveva 17 anni, stava per diventare una signora e una madre. Aline si chiede: cosa sognava prima di prendere marito? E cosa sognava dopo? Sognava ancora, dopo? Hanno avuto progetti insieme? Parlavano, ridevano?
Gli archivi di famiglia sono un inganno: le nostre nonne e bisnonne sono fotografate da uomini, quasi sempre. Cosa ci dicono quelle immagini, quei sorrisi e quei volti impassibili?
Il progetto sfocia in un’installazione immersiva, molto toccante, in cui ognuno è invitato a entrare in una storia engadinese che ci parla però di tutte le nostre storie. Parla del potere patriarcale e del potere ambiguo della montagna: libertà e reclusione.
La prima immagine è proprio lei, la Margna, splendente, immutabile, se non per indicarci la stagione. Neve. Alberi, rocce. E il cielo sopra, tragico o limpido. Poi c’è una teca, piena di foto di famiglia, oggetti, come un paio di occhiali e il diario della bisnonna. Sciare, Natale, Aline piccola, i suoi avi, la mamma da bambina. Tutti lì, con quegli scatti che ognuno di noi ha già visto anche nella propria soffitta. Poi, si alza di nuovo lo sguardo e c’è una serie di ritratti: la bisnonna e il bisnonno, visti da una parte o dall’altra, con gli occhi seri, la pettinatura rigida. Non si guardano mai. Chi erano? A cosa pensavano? Lei, per esempio, dopo aver partorito nove loro figli, un giorno ha scoperto leggendo un giornale in una pasticceria di Sils, che suo marito aveva fatto fallimento, che aveva perso tutto, la casa, i terreni, l’albergo che gestivano, ogni risparmio. Un anno dopo è morta, forse di crepacuore.
E di là, sull’altra parete, due immagini, una gigantesca e una minuscola. Nella fotografia grande una parete rocciosa, su una cresta: qualche alpinista con corde e picconi, che faticando avanza, cerca la vetta del Furka. E nell’immagine a lato, la mamma di Aline, avrà 12 anni, un tutù meraviglioso, sta sulle punte, leggera, sembra di carta e felice.
La sofferenza della mamma qui non è raccontata, ma si intuisce un contrasto cattivo, un male che poi a un certo punto le è piombato addosso. È stata lei, da grande, a fotografare quella difficile ascesa verso la cima.
© Aline d’Auria
Un fotogramma del video con donne di tre generazioni che fanno contact improvisation
E proprio per questo, per dare un taglio a quella pesantezza, Aline ci regala (e si regala) alla fine una carezza che ha il sapore del riscatto. Sull’ultima parete, infatti, è proiettato un video, a tre canali, con una colonna sonora di Colin Self, elaborata da musica, voce e attività vulcaniche. Tre donne di tre generazioni diverse si liberano, attraverso la contact improvisation, quel modo di muoversi in cui i corpi si toccano, entrano in contatto, si intrecciano, comunicano senza parole, senza l’aiuto della mente. Aline ha portato queste tre donne di età diverse sotto la montagna, sotto il Piz de la Margna, in Alta Engadina: il risultato è una specie di danza. La montagna, indomabile, pur sempre la stessa, è stata trasformata in liberazione.
© Aline d’Auria
Il Festival fotografico di Bienne celebra la fotografia contemporanea da più di 25 anni. È l’unico festival annuale di fotografia emergente in Svizzera. Dal 3 al 25 maggio, le opere e i progetti di una ventina di fotografi svizzeri e internazionali occupano luoghi noti e insoliti della città di Bienne, da scoprire attraverso una passeggiata fotografica. Un ricco programma di eventi, incontri, visite guidate, conferenze e performance accompagna le esposizioni.