‘Quello che facciamo, nel nostro piccolo, è lotta all’oblio in una società che ha confuso il benessere con il superfluo’
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Quando in Ticino si parla di montagna, i nomi di Giuseppe e Chiara Brenna sono fra i primi che vengono in mente. Di origini italiane l’uno e verzaschesi l’altra, entrambi, in modi e con apporti diversi, hanno dedicato una parte più che sostanziale delle proprie vite all’esplorazione dei colossi che ci circondano. A partire dagli anni 80, infatti, numerose sono state le loro pubblicazioni a tema, dalla ‘Guida delle Alpi ticinesi e mesolcinesi’, edita in cinque tomi dal Club Alpino Svizzero, al più recente ‘Alpi di Val Verzasca’ (Salvioni, 2024), nuovo volume apparso nella collana ‘Sui sentieri dei padri’ presso l’editore bellinzonese. Da tempo residenti a Brione, dove per anni hanno gestito un’azienda agricola che è arrivata a contare fino a cinquanta capre, mi accolgono un sabato pomeriggio per discorrere, appunto, di montagne, sentieri, pascoli e vette.
Dopo essermi “arrampicato” su quei tornanti che, affiancando rocce di fiume al cospetto della Föpia e del Poncione d’Alnasca (montagne a cui Giuseppe ha dedicato la sua tesi di Bachelor in Filosofia L’esperienza estetica della montagna), portano in fondo alla Valle Verzasca, arrivo all’abitazione dei Brenna.
Sono invitato a prendere posto in sala, dove alle spalle della tavola stanno scaffali sui quali svettano, è proprio il caso di dirlo, titoli prettamente “montani”. «La maggior parte dei libri ora sta ai Monti Motti», mi spiega subito Giuseppe. «Qui era un casino e lassù, dove avevamo la stalla per le capre, abbiamo ricavato la biblioteca di famiglia».
© Giuseppe e Chiara Brenna
Chiara e Giuseppe Brenna
Solitamente, quando realizzo un articolo-incontro, è mia abitudine chiedere agli interlocutori se ci sia stata una scintilla, un particolare evento o fatto che ha determinato le scelte di vita essenziali, quali il mestiere o la dedizione a una determinata pratica. Interrogata al riguardo, ecco che Chiara menziona lei pure i Monti Motti, località ad alta quota (1’062 m) situata nei pressi di un limpido stagno: «Sono praticamente cresciuta lassù. Tutte le mie estati le trascorrevo lì, così come le domeniche della bella stagione. Per me erano il paradiso, facevano parte di me come per un bambino delle Isole Salomone l’acqua è parte naturale della propria vita».
Molto diversa, invece, è la risposta di Giuseppe, che, ancora oggi, a 73 anni e con l’aiuto della moglie, continua la sua opera di documentazione del territorio montano della Svizzera italiana: «Ho perso mia madre a 2 anni e mio padre, che era di Cantù, era un falegname poverissimo. Ai miei genitori ho dedicato una via che ho aperto sulla parete sud-ovest dell’Adula: si tratta della Via Ezio e Maria (molto apprezzata da chi l’ha ripetuta), che ho descritto nel volume 3 della Guida delle Alpi ticinesi, all’itinerario 709».
«Per me la montagna ha sempre rappresentato un luogo, oltre che di conoscenza, di libertà. Una volta ero sul San Giorgio e guardandomi attorno i miei occhi non andavano tanto alle molte cime che ho fatto, quanto all’Ala Materna di Rovio: si tratta di uno degli istituti del Canton Ticino in cui, fino a 15 anni, sono cresciuto (il primo si trovava a Bissone, dove mi aveva portato una zia di Lugano). Ho scoperto la montagna durante una colonia estiva della Cristiano Sociale al San Bernardino. Diventato poi membro OG del CAS Leventina di Bellinzona, conobbi lì i fratelli Petazzi, che erano dei grandissimi alpinisti e diedero il la alla mia vita alpinistica».
Nonostante abbiano eletto la montagna quale luogo privilegiato, sia Giuseppe che Chiara hanno fatto esperienza della grande città, dove, prima di conoscersi, si sono dedicati alla propria formazione: lei al Conservatorio Giuseppe Verdi, lui all’Università Statale degli Studi di Milano (Scienze politiche). Nel rievocare quell’esperienza, Giuseppe racconta di quando, per mantenersi, di notte lavorava come operaio in fabbrica; tra l’altro, ironia della sorte, in uno stabilimento nel quale, fra “Grand Hotel” e periodici simili, andava in stampa anche il Settimo grado di Messner, che i colleghi gli passarono sottobanco non rilegato.
Ma venendo al sodo, per descrivere il suo rapporto con l’urbanità, mi legge un passaggio de La strada di San Giovanni di Italo Calvino in cui l’autore racconta come, sebbene fra lui e suo padre vi fossero differenze sostanziali (il primo era attratto dalla vita nelle città, mentre il secondo dalla botanica), entrambe le loro strade portassero ugualmente lontano: «Ognuno ha la sua biologia e non è che una sia migliore o peggiore dell’altra. Io mi sono trovato meglio andando verso l’alto. Il perché non lo so e, di conseguenza, non saprei neanche spiegarlo». Anche per Chiara, che molto ha apprezzato ciò che Milano le ha permesso di conoscere quando studiava violino, si tratta di una questione quasi fisiologica: «Ora che siamo “vecchietti” Giuseppe un giorno mi ha chiesto», mi riferisce ridendo, «per praticità adesso dove preferiresti abitare? A Locarno, a Lugano o a Bellinzona? Io, indicandogli l’Alnasca, gli ho risposto: ma davvero tu pensi che potrei vivere senza vedere tutto questo?».
E quel «tutto questo» i Brenna lo hanno davvero passato palmo a palmo non solo come appassionati alpinisti, ma pure da caprai quali sono stati (Giuseppe accanto alla sua attività professionale) – tra l’altro imparando il mestiere in età già avanzata – per i 20 anni che li hanno visti falciare fino a 70’000 metri di terreno (7 ettari di ripidi prati recuperati dall’abbandono), produrre latticini e, con l’aiuto di altri, macellare le bestie.
Questa scelta, in un modo o nell’altro, li ha portati a ricalcare le tradizioni agricole della loro valle, così ben documentate ne La Val Verzasca di Max Gschwend (Salvioni, 2007), volume dedicato all’attività contadina durante la Seconda guerra mondiale e curato da Giuseppe stesso nella sua versione in lingua italiana. In quelle pagine, tra le altre cose, è ben descritta proprio la cosiddetta transumanza verzaschese che, seguendo ritmi stagionali, dai tempi dei primi insediamenti costringeva costantemente gli autoctoni a spostarsi tra villaggi e monti al fine di sostentarsi in un territorio aspro e improduttivo. «Ci ho messo tre anni a realizzare questo libro», mi dice Giuseppe facendomi dono di una copia del testo. «Mi sono detto, devo almeno tradurre dal tedesco una frase a sera e, alla fine, sono arrivato in fondo. Quando lo abbiamo presentato, c’era un sacco di gente e molti, qui, avevano conosciuto il Max Gschwend e si ricordavano di lui».
Giuseppe e Chiara hanno avuto due figli e oggi, di conseguenza, uno stuolo di nipoti viene spesso a visitarli. Pensando al loro enorme impegno nel raccogliere e documentare i segni del patrimonio di chi ci ha preceduto attraverso un puntuale lavoro di indagine e documentazione (penso, fra le tante opere, ad esempio a quella dedicata a Giuseppe Zan Zanin e la Valle di Foiòi, in cui si racconta come, nel 1833, un uomo di grande ingegno – a cui fa omaggio anche Plinio Martini nel suo Il fondo del sacco – realizzò un’impressionante serie di scalinate in pietra per portare il bestiame da Cavergno fino all’alpe) da padre mi viene naturale chiedergli come pensano che tutto questo possa aiutare le giovani generazioni che, purtroppo, ora si affacciano su un mondo sempre più feroce e cinico.
«Sai, quando i miei nipotini da piccoli venivano qui, un giorno, improvvisamente, realizzarono che ero la mamma del loro papà e mi dissero: “Ma non è vero!”», racconta ancora Chiara. «Da lì mi fecero un sacco di domande, su quello che facevamo, su come vivevamo, su come loro padre e lo zio giocavano insieme. Ecco, credo che uno strumento fondamentale per difendersi e orientarsi sia la consapevolezza di avere una storia, di non essere nati con uno smartphone in mano e di provenire da qualcuno che ha avuto la forza d’animo e la fantasia di ricavare il meglio anche dal budello più remoto di una valle». «Quello che facciamo, nel nostro piccolo, è lotta all’oblio in una società che ha confuso il benessere con il superfluo. Oggi si costruiscono telefonini con minerali estratti da una qualche miniera del Congo dove lavorano anche i bambini e, tra un WhatsApp e l’altro, nemmeno ce ne rendiamo conto», conclude Giuseppe. «Bisogna essere modesti di fronte alla Storia, perché non è scontato avere una strada da percorrere e quando questa c’è è perché i passi dei nostri antenati ne hanno segnato la direzione».
© Giuseppe e Chiara Brenna