I tre capannari raccontano la loro esperienza in montagna, fra lingue diverse, colazioni, pranzi e cene, gentilezza e accoglienza
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Essere (e diventare) capannari è, prima di tutto, un sogno che si avvera. Un desiderio che ha nella montagna – un’entità naturale, geografica, storica, culturale e paesaggistica – la sua fonte. Diventare capannaro presuppone un cuore aperto a chi arriva, gentilezza, accoglienza e tanta buona volontà, perché può essere un mestiere faticoso. Ilaria, Alessandra e Richard, capannari, ci raccontano la loro esperienza lavorativa in alta quota.
Crescendo in una famiglia appassionata di montagna era inevitabile passare qualche notte in capanna. La prima volta avevo nove anni: Capanna Buffalora, Valle Calanca, Canton Grigioni, dove il capannaro ci ha accolto con una tazza di tè caldo e un sorriso. Nell’osservare il capannaro, una cosa mi ha colpito: era sempre in movimento. Che sia stato per ricevere gli ospiti, preparare la cena o chiacchierare con gli escursionisti, c’era sempre qualche cosa da fare.
E così è anche oggi per Ilaria Pagani-Cadenazzi alla capanna Scaletta della Società alpinistica ticinese (SAT) e Alessandra Bernardi e Richard Pedditzi alla capanna Bovarina dell’Unione ticinese operai alpinisti (UTOE), società fondata nel 1919 «dalle organizzazioni operaie che vedevano nell’escursionismo lo spunto per ridurre la piaga dell’alcolismo».
© Capanna Scaletta
Sei anni fa Ilaria, di formazione cuoca, ha realizzato un sogno che aveva fin da adolescente: essere capannara o, nel suo buon dialetto «capanata». Durante la stagione estiva, Ilaria risiede tra le cime della Val Camadra nella capanna più a nord del Ticino, dove vive «quattro mesi ricchi di energia» con gli animali selvatici che le fanno visita. Ad aiutarla ci sono i suoi figli e alcuni studenti, con cui è nata una profonda amicizia.
Alessandra e Richard, invece, hanno la custodia della capanna Bovarina da poco più di un anno e affermano di «sentirsi proprio a casa», una casa che sono felici di aprire a chiunque li raggiunga a 1’870 m s/m. Dopo anni trascorsi in casa anziani, rispettivamente in carrozzeria, hanno colto questa occasione una volta saputo che il rifugio sarebbe rimasto senza custode. La decisione di abbandonare le rispettive professioni non li ha tormentati a lungo, anzi. La vita di città, diventata troppo frenetica, li ha spinti ad accettare subito l’offerta.
© Bernardi e Pedditzi
La capanna Bovarina
La passione per la montagna e il legame con la natura caratterizzano le vite di Ilaria, Alessandra e Richard, che nella gestione della capanna vedono tradizione («si tratta di mantenere vive le tradizioni del territorio, di insegnarle ai giovani»), semplicità («si vive di quello che si ha»), bellezza («panorami stupendi») e il senso di libertà offerto dagli spazi aperti in alta quota. Si ha l’impressione di «essere a un passo dal cielo», dice Ilaria.
Tornare al piano e riprendere il lavoro nell’azienda agricolo-vitivinicola di famiglia è «sempre uno shock» per Ilaria. In primavera, poi, ricomincia l’organizzazione della nuova stagione: cibo, bevande, carta igienica e tutto il resto.
Anche Alessandra e Richard trascorrono qualche settimana lontano dalla loro capanna per predisporre i rifornimenti e accordarsi con i fornitori locali per le vivande. Ogni momento non trascorso in montagna sembra per loro essere sprecato, tanto che hanno deciso di far vivere la capanna anche durante l’inverno, aprendola a settimane alterne per offrire ristoro a chi si dedica allo sci con le pelli di foca o alle ciaspole. Con questa e altre piccole iniziative Alessandra e Richard danno alla Bovarina una loro impronta personale che gli ospiti, anche i più piccoli, apprezzano. Alessandra ricorda il sorriso gioioso di una bambina celiaca nello scoprire che fra le torte ce n’era una senza glutine.
Questi momenti e il legame, seppur breve ma intenso, che si crea con gli escursionisti sono una delle motivazioni che portano a dedicarsi a questa attività. L’emozione che trapela dalle parole e dalle espressioni testimonia l’importanza della connessione umana ad alta quota.
Oltre a «saper stare a contatto con molta gente», un buon capannaro deve essere determinato, motivato, flessibile, capace d’arrangiarsi e mattiniero. La sveglia suona infatti alle 6. Così iniziano le giornate alla Scaletta e alla Bovarina: dopo colazione ci si mette subito all’opera per assistere gli ospiti. Salutati anche gli ultimi escursionisti, è tempo di riordinare i locali, pulire le camerate e l’esterno, eseguire piccole manutenzioni, occuparsi dei rifiuti, nonché preparare pranzo e torte, la cui bontà aumenta insieme all’altitudine.
Altro requisito è essere un po’ poliglotta. Fra gli escursionisti che frequentano le montagne ticinesi, molti sono svizzero-tedeschi e sono presenti tutta la stagione, suddividendosi i mesi per fasce anagrafiche: tra luglio e agosto arrivano giovani, coppie e «tante famiglie con i bambini», mentre «a settembre si trovano più escursionisti “senior”», una tendenza che si riscontra ormai da anni. Sono però in aumento anche turisti da oltre i confini nazionali: Francia, Belgio, Paesi Bassi, Regno Unito e, in Bovarina, addirittura Canada e Australia. Gli escursionisti non sono però solo svizzero-tedeschi e stranieri. A partire dal periodo Covid, infatti, molti ticinesi si sono approcciati alla montagna, purtroppo però non tutti attrezzati e sovente con pretese da albergo. Richard afferma inoltre, ammirato, che si incontrano anche diverse giovani donne in cammino da sole e ben equipaggiate. Secondo la Federazione Alpinistica Ticinese (FAT), nel 2024 i pernottamenti nelle 32 capanne di proprietà delle 16 società affiliate sono stati 23’815, in linea con l’anno precedente, malgrado le condizioni meteo sfavorevoli.
L’incontro e il misurarsi con la montagna suscitano in ognuno forti emozioni. Essa dà sempre tutta sé stessa a chi la vuole amare poiché, secondo William Blake, “quando uomini e montagne si incontrano, grandi cose accadono”.
© Bernardi e Pedditzi
Richard e Alessandra