
Fu Elsa Morante, di quarant'anni più grande, a definirla una ‘poeta’, fra le più importanti dei contemporanei
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Nata il 17 aprile 1947 a Todi, Cavalli muore a Roma (città d’elezione) il 21 giugno 2022, a 75 anni. Nel mezzo delle date estreme, ha scritto soprattutto opere in versi, tanto che è considerata una “poeta” contemporanea fra le più importanti; una vocazione, si racconta, messa in luce e spronata da Elsa Morante. Sette sono le raccolte poetiche pubblicate e una sola in prosa (nel 2019), che le valse il Premio Campiello – Giuria dei Letterati, qualche anno fa.
Del suo silenzio io sono invidiosa/ e di come si appoggia a un davanzale/ lasciando alla luce i suoi miracoli.
Tre versi e una poesia intera di Patrizia Cavalli. La poesia somiglia alla preghiera in alcuni aspetti. Vicine entrambe al silenzio ma per mezzo di parole. Parole silenziose. Poi sono contigue nelle forme essenziali che assumono. Come la preghiera, la poesia può essere di richiesta e di protesta, di lamento e gratitudine, di lode. Tutto piuttosto impreciso e scontornato, e una cosa può essere mescolata all’altra.
La poesia di lode è rara e come molte cose rare, preziosa. Si può fare perfino ancora un passo? Augurarsi di poter esprimersi soltanto in versi. Non parlare più, soltanto scrivere (si tratta di due operazioni a volte, più che contigue o complementari, opposte). Questo vorrebbe dire che ogni nuova espressione sarebbe lode o compianto, protesta, espressione di stupore. Ma su questo si può lavorare: ridurre al minimo malcontento e richiesta, generi così orali, quotidiani e troppo universali. Concentrarsi sull’ammirazione. Nel caso del tanto non la merita, tacere. Ne verrebbe una specie di diario in versi: quello che forse ha tenuto Patrizia Cavalli per cinquant’anni, senza badare alle date e senza continuità. Diario interrotto, stupori e interrogazioni, ma senza preghiera.
L’altra Patrizia della poesia italiana, insieme alla Valduga nata quattro anni dopo. Patrizia Cavalli è nata a Todi nel 1947 e scomparsa tre anni fa, a Roma, città scelta al tempo degli studi universitari, a vent’anni, e non più lasciata.
Poeta meglio che poetessa, come desiderava lei stessa forse su uno dei suggerimenti imperiosi di Elsa Morante. Si ripete spesso l’importanza della Morante nella sua vita e nella poesia, ed è giusto dare all’incontro tutto il peso che ha. Non di più, anche se il confine non è facile da tracciare. L’incontro avvenne per mezzo di amici comuni, Patrizia poco più che ventenne e la Morante maggiore di quasi quarant’anni. Tutto il primo anno di frequentazioni passa senza che la narratrice sappia dei versi dell’altra. Fino al giorno in cui la incontra, per caso, la prende per le spalle e le chiede: “Ma tu che fai?”.
Timida risposta e molto brusca richiesta: “Fammeli un po’ leggere”. Lo riporta la stessa Cavalli il racconto che, detto e ripetuto da altri, non tarda ad entrare nel folklore. Patrizia torna a casa e rilegge i versi scritti, decide che non ha il coraggio di mostrarli a una giudice tanto severa e comincia a scriverne altri, molti altri. Passati alcuni mesi ci furono la consegna, la lettura e la telefonata investitrice: “Sei una poeta”. Quanto al resto del mito – guadagnarsi la vita giocando a poker, in certi momenti, in altri vendendo quadri eccetera – è alimentato al solito da amici e appassionati con le migliori intenzioni. Che quel che conta siano i versi è un’evidenza da ribadire continuamente. I versi e quel che dice il poeta o la poeta, da ascoltare con cautela. Il breve e sbiadito filmato in cui dice che non le importa comunicare, ma esprimere, quasi stupita – dell’invisibile interlocutore, di doverlo specificare, della sua voce – si può ascoltare e credere senza cautela. Come quest’altro suo giudizio: “La poesia è prendere qualcosa e togliere il superfluo per farlo risplendere”.
Ancora poche righe sul tema da ribadire continuamente. Le amplificazioni e le celebrazioni sminuiscono i poeti. Forse li umiliano. Si riconoscono, poeti e poetesse, dagli occhi, dalla bocca e dal passo, che le architetture della critica cercano di coprire come possono. Passo, occhi e bocca annunciano i versi. Il resto è il di più. E come chi fa poesia vi arriva togliendo, allo stesso modo si dovrebbe tentare di definirla, quella poesia, a beneficio di chi non la conosce ancora. La critica fa molto se si impegna a indicare, a far da ponte. Ma solo i versi contano, e l’obiettivo è che quella poesia sia letta.
Com’era dolce ieri immaginarmi albero!(...)/ Non ero io a me stessa gioia né tormento,/ io non potevo togliermi al mio centro,/ io senza decisioni o movimento,/ se mi muovevo era per il vento. Non c’è molta natura nei versi di Patrizia Cavalli, e questo è uno dei pochi esempi. Tutta una vita a mettere insieme, molto onestamente, sette raccolte. A sette anni di distanza qualche volta. La prima è del ’74, Le mie poesie non cambieranno il mondo, e l’ultima, Vita meravigliosa, del 2020. In mezzo, fra l’altro, Il cielo (1981) L’io singolare proprio mio (1992), Sempre aperto teatro (1999) e Datura (2013). Un libro di prose, Con passi giapponesi (2019), che sorprese e allargò il suo pubblico. Due traduzioni di teatro da Shakespeare e da Molière.
I temi si ripetono come in tutte le raccolte poetiche, da un libro all’altro, ma a chi legge poesia questo non dispiace. Molti interni, ma gli interni si aprono al fuori per via delle finestre. Quindi cielo e nuvole. La piazza e le strade con le loro distrazioni e i loro inganni, il mercato. I corpi degli altri e il proprio, mutilo di ogni geografia. Ci sono anche molti sonni nei versi della Cavalli, e molti risvegli lenti e disorientati. E così torniamo agli interni: Io sono in soggezione dei rigidi cuscini,/ dei libri aperti, dei corridoi inutili/ e feroci, dei quadri appesi, dei cimiteri/ di camicie e sciarpe che in ogni stanza/ io stessa ho seminato. C’è anche un discreto numero di scale. Una volta l’ispirazione la coglie all’ultimo gradino, scendendo, un’altra all’ultimo nel salirle. L’alternanza è tra illuminazione e interrogazione, non solo lungo le scale. Il più delle volte prevale la seconda e resta quello che è, abbagliata qua e là lungo il percorso della poesia, confusa, ma non vinta.
Patrizia Cavalli è “naturalmente colta”, è un altro giudizio di Elsa Morante, che coglie nel segno in pieno naturalmente. Non la immaginiamo che ci parli di libri, di altri poeti, di tecniche. Solo della vita. Come non lo immaginiamo di Kavafis, Sandro Penna o Alda Merini. Poi in fin dei conti di altri poeti parlava. Per esempio della Dickinson. E qui c’è il posto per una stravaganza o genialità che non è folklore: cantare i versi di Emily Dickinson – proprio cantarli – su ritmi blues.
Spigolosa e morbida, scontrosa, gelida e giocosa. Molto noncurante. Ilare solitudine, ma quasi assoluta, e non temuta più di tanto (ma non riusciva a cenare sola: le cene erano piene di amici se possibile). Sola a cartografare il proprio corpo con i suoi pensieri. E il corpo altrui senza i pensieri. Poesia come una fisica o una geometria dell’amore o del dolore, degli scompensi e dei sollievi di una giornata. Senza dare vera importanza a nulla: dolore e amore, corpo, pensieri e solitudine.
Scrive a ricordo di un’escursione con gli amici: “Volevo essere sola, ma non del tutto sola, e il modo migliore per essere soli, eppure protetti, è restare dietro mentre gli amici procedono”.