laR+ Settimana giallo-nera

Giorgio Scerbanenco cominciando dai ‘Racconti neri’

La sua scrittura è puro mistero, più che per ogni altro maestro del giallo o del noir. Si veda nella scelta garzantiana uscita nel 2005

18 giugno 2025
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In un racconto deve circolare più aria che in un romanzo. Come in una poesia che è ancora più breve, e anche se nel racconto dovranno restringersi delitti, investigazioni e soluzioni ipotetiche del caso. Ricardo Piglia ne ha scritto uno, di quelli col commissario Croce, in cui si danno il cambio un aerolite piovuto dallo spazio e una fisarmonica, una bibliotecaria e un ragazzo croato, marinaio, messo in mezzo in un omicidio. Croce interroga il ragazzo a mezze parole e l’altro risponde a disegni, e visto che è un commissario vero lascia che il caso si risolva da sé perfino in un altro continente. Tutto in quattro pagine e con i molti buchi che permettono la circolazione dell’aria.

Dal rosa (sporco) al nero

Venendo a Scerbanenco: nessuno poteva conoscerlo meglio di Oreste Del Buono, al quale fece leggere la prima parte di ‘Venere privata’, nel 1963, poi il romanzo intero. Passava al poliziesco finalmente, o così sembrava (in realtà ci stava dentro da uno o due decenni), ed era felice e credeva molto in quel libro. Così lo stesso Del Buono sottolinea, forse per non farla lunga, questo ‘passaggio’ dal rosa (sporco) al nero, che produsse quattro romanzi – i suoi più famosi, con Duca Lamberti – fino al ’69, l’anno della morte. Aveva sempre sofferto del lieto fine e scritto racconti e romanzi gialli fin dagli anni Quaranta. Se li ambientava in New Mexico, sembrava che ci fosse vissuto trent’anni e anche chi legge si sente in New Mexico, fosse solo per un cenno al paesaggio o per il talento nel dare i nomi ai personaggi. Quanto ai racconti, tra il migliaio scritto, un terzo o più tende al giallo e nero e negli altri è lieto, più o meno, solo il finale, visto che glielo imponevano. “Macchina per scrivere storie”, lo chiamava Del Buono. Per il resto quel che muove e conforma la scrittura di Giorgio Scerbanenco resta puro mistero, più che per ogni altro maestro del giallo o del noir. Ma noir è più appropriato e “nero” forse ancora di più. Per cui l’ipotetico lettore o lettrice che vuol provare con i suoi racconti, e tra le decine di titoli non sa bene se si tratti di narrativa breve o lunga, con la scelta garzantiana intitolata ‘Racconti neri’ (2005) non può avere nessun dubbio.

Pennellate brevi e sbieche

“Per scrivere devi averne voglia”, diceva. L’ispirazione verrà scrivendo, se viene. A lui veniva fin dal primo rigo, la anticipava. E quanto ancora a cosa componesse il tessuto del narrare, la tensione percepibile fin da quello stesso primo rigo, anche nel caso di racconto rosa, la visibilità dei personaggi anche se la descrizione è solo accennata – ma amava descrivere, a pennellate brevi e sbieche – la naturalezza dell’azione che esce dalla precedente ed entra in quella che viene in un flusso senza la minima piega, si deve ripetere che è impossibile distinguerlo. Vedeva davanti a sé presenti, come su uno schermo, le azioni e i personaggi che le incarnavano. Sembrava che li conoscesse tutti. Su tutto dava la sua mano di grigio di tutte le sfumature esistenti, dal grigionero indietro fino al bianco, tinta non meno inquietante (nel cielo per esempio, nel mare).

Questo è l’inizio di ‘Emanuela e la vipera’ – e i due o tre incipit che riporterò saranno le vere istigazioni alla lettura di questo discorso –: “La vipera la morse, senza malignità, alla caviglia, un poco più su della caviglia, la morse semplicemente perché era una vipera e perché lei si era avvicinata troppo, con il suo sandalo dorato e il piede nudo...”. Così inizia invece ‘Il delitto non rende ma l’abiezione sì’: “La rapina avvenne a Villa Estense, un piccolo comune vicino a Padova (...) in una già calda mattina di maggio e, come disse il brigadiere Vestucci della questura di Padova, di oltre cinquant’anni, era stata la rapina più imbecille e sanguinosa che avesse visto nella sua carriera”. Scerbanenco non teme le anticipazioni drastiche. Metterebbe nelle prime tre righe quello che il giallista di secondo o terz’ordine rimanda con cautela all’ultima pagina. E il racconto ‘Né gloria né grana né brune’ (già una triplice anticipazione) lo dimostra fra gli altri: “Il pittore Edoardo Santo aveva fatto il diavolo a quattro per avere come modella una bella bruna dagli occhi celesti, ma quando Lucia telefonò per l’appuntamento lui non la poteva più ricevere: c’era un morto nel bagno, l’aveva ucciso lui e i milioni di dollari, di sterline, di franchi svizzeri che aveva accumulato nel suo nascondiglio glieli aveva portati via la modella Rachele, quella stupida bionda...”.

Forse solo Simenon

Giorgio Scerbanenco è un mondo a parte e uno dei due o tre (forse solo due), tra i giallisti, capaci di ricreare un mondo intero. Forse in questo gli è comparabile soltanto Simenon. Come se avessero quell’occhio instancabile di cui parlarono altri scrittori, più attento di uno specchio o della telecamera più sensibile. L’occhio guarda incessantemente, mentre l’uomo che contiene lo scrittore fa la sua vita di ogni giorno. Al momento di sedersi a scrivere, le immagini fissate si srotolano, mescolano, scompongono e ricompongono in modo da ricreare un mondo nuovo. Vivo e angosciante come l’altro.