Quando la morte di una persona cara diventa una scelta programmata: il racconto di una figlia sul suicidio assistito della madre
Quando mia madre capisce l’origine delle sue difficoltà, la durezza scompare e con essa scompare anche la resistenza a esporsi, ad aprirsi, a condividere il suo mondo interiore con gli altri. Resta una persona ripulita da ogni peso, linda, come una Venere appena lavata dalla schiuma. Quella dolcezza ricoperta da strati di vissuto che faticava a mostrarsi risorge dal profondo e la rende innocente come un primo sospiro, un primo vagito.
Da donna nuova, che percepisce l’importanza di ogni secondo, mia madre decide che l’unico modo corretto di affrontare la morte è quello di celebrare la vita. Si circonda così di amiche che le vogliono bene e che si accalcano a chiamarla, a scriverle, ad andare a trovarla in clinica. Da sole o in gruppo, ognuna a modo suo le confida gli ultimi segreti e le ultime pene, prima che a un giorno e a un’ora prestabiliti mia madre le lasci. Per le amiche lei fungeva da confidente, da valore certo e assoluto, da punto fisso al quale aggrapparsi. Mi chiamano per offrirmi il loro aiuto e la loro vicinanza – così mi dicono – e io so che sono buone e sincere, ma che al contempo lo fanno per aiutare sé stesse, per ritrovare qualcosa di lei in me. Una in particolare non mi lascia mai sola, per settimane funge da “seconda mamma” o da “zia” e mi incita, mi sostiene, piange con me, mi impedisce di sentirmi sola e sopraffatta. Ci sarebbe un fratello vero, da qualche parte, ma mia madre non vuole vederlo né avvertirlo e mi chiede di aspettare a farlo “dopo”, tramite mio cugino che non vedo da anni. Nemmeno al marito sposato per sbaglio alla fine dell’adolescenza – e liquidato nello spazio di meno di un anno – ha nulla da dire. Non è mai stato il nostro forte l’intreccio di legami chiamato “famiglia” e quando mia madre se ne andrà lascerà dietro di sé solo me e sua nipote, mia figlia, con la quale il rapporto non è mai decollato davvero, non so se per incompatibilità o semplice lontananza geografica.
È una tosta, mia madre, una che non ha mai avuto paura delle decisioni drastiche e lo dimostra anche ora, rifiutando cure che reputa troppo dolorose e quindi inutili e decidendo di uscire di scena a modo suo. Raccontandosi che voleva vivere in modo normale, ha ignorato la malattia, nascondendola anche a me. Mi ha fatto un favore? Forse sì, ma al contempo mi ha esclusa da ogni possibile partecipazione a una qualunque decisione.
Come le sue amiche in pellegrinaggio al suo capezzale, anch’io mi sono aggrappata a lei per tanti anni, a una madre risoluta, decisa, inaffondabile, che sapeva ascoltare e aveva sempre (o quasi) la frase giusta; una madre che diceva “stringi i denti”; una madre che non accettava che il mondo non si piegasse al suo volere. Per una indecisa e tentennante come me, lei ha sempre rappresentato una tentazione continua a lasciarmi andare. Raccontandole la mia vita, tempestandola di parole, io mi perdevo dentro di lei, confondendomi, lasciando che lei diventasse una succursale di me stessa, il mio secondo io, una presenza fissa che presto mi abbandonerà. Quando chiuderà gli occhi strapperà un pezzetto della mia anima e se lo porterà con sé.
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In un’attesa che sa di grottesco, aspettiamo che la data venga fissata e l’accompagnatrice di Exit ci dice che contatterà le pompe funebri in anticipo, in modo da essere pronti e ben organizzati. È tutto perfetto e anche tragico, tragicomico, surreale. Perché se anch’io da un lato voglio che lei se ne vada con dignità, dall’altro non posso far altro che domandarmi se questa partenza programmata in realtà non sia sbagliata, innaturale. Se non rispecchi l’insofferenza di una società che non sa più sopportare e preferisce sbrigare ogni cosa in fretta. Eppure le dottoresse – tutte donne, tutte capaci, empatiche, profondamente solidali – dapprima all’ospedale e poi alla clinica palliativa, non fanno altro che sottolineare la giustezza dell’atto, il diritto a scegliere come partire e quando. Questo diritto non potrà però essere esercitato nella clinica sopra il lago dove mia madre ormai si sente a casa, perché le autorità non lo permettono. Visto che nel suo appartamento non ci vuole tornare, non le resta altra scelta che congedarsi dal mondo in un locale anonimo adiacente al crematorio di Riazzino. Ecco come, con lo zampino delle autorità, il surreale può trasformarsi in ipocrisia. L’accompagnatrice di Exit lo capisce e fa del suo meglio per confortarmi: è una ragazza intelligente e sensibile e con lei parlo della contraddizione che vivo quando cerco di accelerare la visita con lo psichiatra, in modo che dia il suo benestare. Perché se aspettiamo troppo a lungo il cervello, l’organo colpito, potrebbe giocare a mia madre il suo ultimo perverso scherzo rendendola troppo diversa da chi è e togliendole la capacità di decidere, che è la sua arma, l’unica che sa usare per difendersi. Già ora i neuroni ostaggio del cancro creano fantasiose realtà parallele sulle quali insiste a oltranza finché un qualcosa, un particolare – un mio sguardo o un mio commento scherzoso – non la portano a dubitare delle sue convinzioni e allora mi abbraccia forte e ride, esclamando che ormai il cervello non le funziona più. Mi trovo intrappolata in un controsenso che mi spinge a stabilire per tempo la data della sua dipartita che a volte mi appare come un’esecuzione. Quando le propongo un certo giorno di una certa settimana, mi risponde con candore che per lei va bene, che qualsiasi giorno va bene, che è pronta. Io però no! Ho l’impressione di darla in pasto al boia: mi sento colpevole e sbagliata e ciononostante continuo a pianificare, perché devo avvisare i miei datori di lavoro, il mio ex marito, devo capire dove mi troverò, come mi organizzerò.
A più riprese parliamo di ciò che lei vuole e decidiamo che un funerale per un’atea convinta come lei avrebbe poco senso. Parliamo anche dell’urna e delle ceneri, che spargerò nei pressi della casa di montagna dove ha trascorso le estati della sua infanzia. Mi racconta del cugino preferito che di notte, quando erano a letto, le teneva la mano attraverso un pertugio; mi parla della pioggia che batteva sulla lamiera del tetto e dei ghiri che si divertivano a correre sulle assi del pavimento del solaio.
Mi chiedo cosa ci renda ciò che siamo. Una visione puramente materialistica dell’universo mi porterebbe a pensare che il nostro io sia il semplice risultato dei collegamenti tra neuroni, ma mi piacerebbe pensare che ci sia dell’altro e che la corrente che sta allontanando mia madre mandandola alla deriva nel mare aperto dell’oblio sia un velo che nasconde ma non cancella. L’agnostica che è in me spera di poterla incontrare un giorno in un’altra dimensione. Certo, perché la sua morte fa sentire anche me un po’ più mortale, meno eterna di ciò che credevo di essere da ragazza.
Contatto il suo fidanzato storico, l’uomo sempre abbronzato e con il naso aquilino che a me ricordava un indiano d’America e che da bambina vedevo nei weekend; l’uomo con il quale mia madre di sera “andava a bere il caffè” (e io me li immaginavo davvero seduti da qualche parte a bere caffè); l’uomo che aveva una presenza rassicurante e che mi regalava affascinanti apparecchi elettronici che solo lui sapeva trovare (uno ce l’ho ancora: una calcolatrice musicale alla quale ho tolto le pile e che conservo nel cassetto del mio comodino). All’epoca, avevo forse dieci anni, la rottura fra lui e mia madre mi fece perdere per la seconda volta un padre. Risentirlo e rivederlo dopo più di quarant’anni è come buttar giù il muro di una diga: ora dentro di me l’acqua scorre finalmente di nuovo libera. Mi accompagna a trovare mia madre e se vederli da adulta toglie magia ai miei ricordi, sapere che lui è la stessa persona che conoscevo e sapere che entrambi si vogliono bene crea un altro tipo di magia ancora.
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Quando mancano sette giorni mi sono ormai abituata all’idea, piango meno quando, al telefono, devo sbrigare qualche compito amministrativo e a volte non piango per niente. E se non piango in qualche modo mi sento in colpa, perché ho l’impressione che dovrei piangere. Giro per le strade della mia città in bici e mi addolora pensare che presto mia madre non potrà più sentire la brezza fresca sul viso come faccio io ora, bere un sorso d’acqua da una fontana, entrare nel mare e nuotare fino al largo, sedersi sotto un albero ad ascoltare il fruscio delle foglie.
Quando mancano cinque giorni, l’accompagnatrice di Exit mi chiama per sapere come sta mia madre e mi conferma la data, sottolineando che possiamo anche rimandarla o cancellarla, che la scelta spetta a noi, a lei. Nel momento in cui glielo riferisco, mia madre è serena e convinta.
Quando mancano tre giorni, mi chiede se valga la pena andare dall’oculista per un problema che ha agli occhi visto che, mi dice, ha solo dieci giorni di tempo. Allora le spiego che ormai i giorni sono tre. Lo scandisco bene, sottolineando che non deve farlo per forza, che può rimandare, se lo desidera. Lei mi ascolta attenta e con calma mi risponde che va bene così, che sente le forze mancarle sempre più, che di giorno va abbastanza bene, ma che le notti sono difficili, popolate da incubi che hanno il sapore della realtà, da ore trascorse insonni girando per la clinica, salendo su in terrazza, passeggiando nella luce dell’alba. Pochi minuti dopo parla di “cose” da fare la settimana prossima e le spiego di nuovo che sono rimasti solo tre giorni e lei di nuovo mi risponde che va bene così.
Contrariamente a ciò che avviene nella finzione della letteratura o del cinema, gli ultimi momenti nella vita di una persona non sono zeppi di frasi filosofiche, di grandi pentimenti e di dichiarazioni di affetto. C’è anche questo, sì, a tratti, ma a dominare sono le questioni spicciole, i commenti sul tempo, sulla politica, sulle persone, i problemi organizzativi, i momenti vuoti. Tutto ciò rende più sopportabile ma forse anche più irreale ciò che sta per avvenire, a una data ora e in un dato giorno.
Quando mancano due giorni nella sua camera c’è una folla di persone che le vuole bene e che fa caciara e che rende meno amara la situazione. In quella baraonda si inserisce a un certo punto anche l’accompagnatrice di Exit, che viene a chiedere se la decisione persiste ancora e a mostrare a mia madre come usare la flebo per l’iniezione del liquido letale. Perché dovrà essere lei, da sola, ad attivare il meccanismo. Lei ascolta con attenzione e quando ci prova la sua mano è ferma e sicura.
Io non potrei. Non saprei trovare il coraggio di andarmene di mia spontanea volontà: avrò necessità che qualcuno o qualcosa mi scacci perché da sola non vorrò andarmene.
Quando manca un giorno ci fermiamo a pianterreno all’accettazione a pagare le fatture di tutti i pranzi e le cene che mia madre ha offerto a me, a mia figlia e a tutti gli altri che sono stati a trovarla. Il direttore ci vede, si ferma a stringerci la mano e ci tiene a parlarmi: mi dice che sono stata fortunata ad avere una madre come lei, che in clinica tutti le vogliono bene e che l’ammirano e che difficilmente la scorderanno. Io invece non mi scorderò mai l’espressione sincera che il direttore aveva quando mi ha parlato.
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Il giorno del suicidio assistito mia madre è pronta. Ha trascorso la notte a inviare messaggi e continua a farlo anche fino a mezz’ora prima del suo ultimo respiro, con poche e brevi soste: quando ringrazia insieme a me il personale della clinica lasciando regali e ricevendo in cambio un mazzo di fiori; quando saliamo in auto per dirigerci al luogo dove ci diremo addio; quando le accenno che ho buttato giù alcuni pensieri – questi – e che forse sarebbe interessante per il resto del mondo capire cosa si provi nell’assistere qualcuno che ha preso una decisione tanto giusta eppur dolorosa; quando la aiuto a scendere dall’auto e vediamo che anche le sue amiche sono già arrivate.
Una volta lì si ributta a capofitto nei messaggi finché il telefono non si scarica ed è costretta a smettere. Il posto è meno tetro di quel che avevo immaginato, ma da qui in avanti tutto si svolge con una tale velocità da rendere ancora più irreale l’atto. Mia madre si allena ad aprire la flebo e quando il medicinale letale viene introdotto nel sacchetto non aspetta più. Le tre amiche che ci accompagnano la abbracciano a turno, io mi siedo sul letto e le tengo la mano. Sono impacciata e non so che fare. Poi il medicinale fluisce e io mi allungo e l’abbraccio a mia volta. Piangiamo piano e nel giro di pochi secondi si addormenta.
Una volta fuori c’è l’affetto delle sue amiche a sorreggermi e poi quello di un’amica alla quale voglio bene dai tempi del liceo.
A casa di mia mamma, ora casa mia, trovo mia figlia e il mio ex marito.
Esco a camminare con lui e mi sento ascoltata, poi mi butto in piscina e nuoto. Ricevo messaggi di tante persone e li apprezzo tantissimo, tutti. Mi stendo al sole e penso che mi piacerebbe raccontare tutto ciò a mia madre, ma lei non c’è più.