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Camilleri, l’autore che inventò la lingua dei ‘cabasisi’

Luca Crovi racconta lo scrittore siciliano nella prima biografia ufficiale in uscita per Salani

(keystone)
26 agosto 2025
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Montalbano è la punta dell’iceberg, ben noto anche da chi non ha mai letto una pagina, ma possiede un televisore. Il celebre commissario è però solo l’ultimo, tardivo figlio di un intellettuale instancabile, regista teatrale, televisivo e radiofonico, scrittore, sceneggiatore, docente all’Accademia di Arte Drammatica, figura chiave della produzione culturale Rai. Un autore gigantesco, il cui tardivo successo coronò una carriera già ricca e stratificata. Un “destino ritardato”, come lui stesso amava dire.

Centodieci titoli, e racconti, adattamenti, radiodrammi, interviste, aneddoti (veri, verosimili, inventati) che contribuiscono ad accrescere il fascino di uno dei pochi scrittori capaci di conquistare un pubblico trasversale ed eterogeneo. Tuttavia, mancava una biografia ufficiale in grado d’intrecciare l’uomo col romanziere, a ricomporre il mosaico di una personalità vulcanica. Nel centenario della nascita, a colmare il vuoto ci ha pensato Luca Crovi, con ‘Andrea Camilleri. Una storia’, appena pubblicato da Salani in collaborazione con il Fondo Camilleri. Milanese, conduttore radiofonico, scrittore, direttore del Festival Tutti i colori del giallo di Massagno, Crovi è un maestro del genere, con all’attivo decine di titoli tra romanzi, saggi, sceneggiature e libri per ragazzi. Per questa uscita, dall’8 al 12 settembre, Rete Due metterà in onda negli spazi di Alphaville una storia al giorno tratta dal volume, letta da Crovi stesso.

Questo non è il primo libro che dedica a Camilleri. In ‘Copiare/reinventare Camilleri’ (Oligo editore) gli dà addirittura del falsario.

Quel libro nacque da un convegno organizzato a Perugia per ricordare lo scrittore a un anno dalla morte. Scelsi la tematica del falsario, perché Camilleri è riuscito negli anni a imitare tantissimi autori. Ha scritto alla maniera di Sciascia, Pirandello, Boccaccio. La tesi su Camilleri/abile falsario deriva da un convegno del professor Silvano Nigro: ci andai con Carlo Lucarelli e ricordo che rimanemmo increduli. Poi anche lui divenne falsario, firmando, proprio con Camilleri, ‘Acqua in bocca’. Copiare e reinventare erano nel suo Dna, ma, come diceva Totò “fare è facile, è copiare che è difficile”.

Qual è stato il primo incontro con Camilleri?

Scrissi di lui in ‘Tutti i colori del giallo’ del 2002, un saggio dedicato all’evoluzione del poliziesco dall’Ottocento a oggi. Nel volume, dedicai molto spazio a Camilleri e a Scerbanenco. Non a caso quest’ultimo, insieme ad Augusto De Angelis e a Leonardo Sciascia, fu fondamentale per la costruzione di Montalbano. Quel primo saggio mi portò in Rai a condurre una trasmissione radiofonica con lo stesso titolo.

Venni così contattato dal fan club di Camilleri che mi chiese perché non l’avessi ancora ospitato. Da allora, realizzammo insieme 16 speciali. Era il 2003 e, in ogni diretta, invitavo un ospite: da lì passarono nomi come Carlo Lucarelli, Valerio Massimo Manfredi, Andrea Vitale. E poi c’era il pubblico di lettori, in studio. Di persona, però, ho incontrato Camilleri solo una volta.

E quando è successo?

A Luino, con il curatore delle ‘Storie di Montalbano’ per I Meridiani, Mauro Novelli: gli facemmo avere il Premio alla Carriera. La sala del cinema era stipata di gente, con altrettanta fuori che premeva per entrare.

Come nasce questa biografia?

Dal dialogo con le sue figlie. Volevamo qualcosa che raccontasse l’uomo attraverso i suoi incontri. Si tratta, però, di una biografia particolare: si ferma al 1986, l’anno di Montalbano, quando Camilleri, da persona, diventa personaggio. Sino ad allora, la sua presenza era rimasta sotto traccia.

Nel 1986, sopravvive a una strage di mafia, quella con cui inizia il libro. Ma il suo nome non esce da nessuna parte, eppure ha già fatto la storia in radio, teatro e televisione. Non è popolare, quindi non viene neanche citato tra i sopravvissuti. Sarà lui stesso a raccontare quella storia. E dire che la sua era già una vita da romanzo: a dieci anni incontra Pirandello, cugino di sua nonna; poi Robert Capa, il generale Patton, la banda del bandito Giuliano, e viene pure picchiato in pubblico da un gerarca fascista, Pavolini.

E con la Rai?

Camilleri era un innovatore in qualsiasi campo. Si pensi a ‘Le inchieste del commissario Maigret’, ‘Sheridan, squadra omicidi’, ‘Le avventure di Laura Storm’. Lavora anche per ‘Il segno del comando’, ‘L’amaro caso della baronessa di Carini’, ‘Il ritratto di donna velata’ – i tre grandi sceneggiati gotici che cambiano il modo di scrivere e produrre fiction. In radio porta la stereofonia quando ancora non si usava, adatta testi teatrali d’avanguardia, invita per la prima volta gli ascoltatori in trasmissione. Sperimenta sempre. È stato uno dei registi delle ‘Interviste impossibili’ – programma Rai tra i più rivoluzionari – e questo fa capire che figura fosse.

Cosa spinge uno scrittore così milanese a interessarsi alla biografia di un autore così siciliano?

Un doppio legame, affettivo e letterario: Camilleri ha contatti con Elio Vittorini e Leonardo Sciascia, personaggi decisivi pure per mio padre Raffaele, per anni segretario di Vittorini in Einaudi, mentre, grazie a Sciascia, pubblica le prime poesie. Mio padre e Camilleri sono perfino presenti in un’antologia di nuovi poeti. E poi entrambi lavorano in Rai, uno a Milano, l’altro a Roma. Per me, questo lavoro è stato un viaggio nella memoria. Ricordi sparsi di un’epoca in parte già vissuta, da bambino, tra scrittori e intellettuali siciliani. Sciascia viene a casa nostra a Milano. E quando nasco io, mio padre non c’è perché sta appianando una lite tra Emilio Isgrò e sua moglie – per dire. E poi, legame letterario: scrivere di chi ha reinventato il giallo italiano è un onore. Come autore del genere, devo molto a Camilleri: nei miei libri uso il milanese come lui usa il vigatese, reinventando la lingua. Entrambi siamo debitori di Gadda, maestro di sperimentazione. Ho cercato quindi di restituire la sua voce con fedeltà, lasciando da parte il Crovi scrittore.

La vita di Camilleri è fatta di incontri e aneddoti straordinari. Quale evento l’ha divertita di più?

Quello in cui Camilleri è ad Assisi per dirigere la regia televisiva e radiofonica d’uno spettacolo religioso. In scena il “paradiso”, ma lo scenografo si rifiuta: “Non l’ho mai visto!”. Alla fine ci pensa un elettricista, ma lo scenografo lo distrugge a martellate mentre il pubblico – composto da religiosi – sta entrando: Andrea, fuori di sé, attraversa la sala bestemmiando, schiaffeggia il tipo, gli sottrae il martello e lo consegna ai carabinieri. Quando si gira, però, la sala è vuota: è rimasta soltanto Rosetta, incinta e in lacrime. Si riesce comunque a terminare lo spettacolo, ma Camilleri si sente in colpa e, pur essendo ateo, desidera confessarsi. Incontra l’allora arcivescovo di Venezia, futuro papa Giovanni XXIII: gli spiega l’accaduto, e il futuro Papa, sorridendo: “Figliolo, te lo confesso… gliel’avrei dato anche io un cazzotto”. Il libro è pieno di situazioni pazzesche, raccontate da Camilleri stesso, che trasformava ogni storia in racconto epico.

Cosa rende speciale il Camilleri scrittore?

Camilleri dimostra che ogni luogo d’Italia ha una sua voce e che, più si raccontano le differenze, più l’Italia diventa interessante. Lui ha usato la Sicilia, io Milano: mi ha insegnato l’importanza dello stile e della lingua. Ha saputo usare il giallo per parlare della società e del presente. Ne ‘Il giro di boa’, Montalbano va in crisi dopo il G8: è una riflessione sullo Stato. Camilleri ci fa capire che i personaggi possono uscire dalle pagine. Ci ha insegnato che il poliziesco non è solo inchiesta, ma struttura di trame, livelli, sottotesti. Ed era un maestro nei dialoghi e nell’ironia: quell’umorismo, spesso comico, è fondamentale per raccontare pure le cose più drammatiche.

La lingua di Camilleri è ibrida e stratificata: un meticciato che usa il dialetto siciliano per contaminarlo con l’italiano e viceversa. Il suo enorme successo, per lo stesso autore, fu “francamente, inspiegabile”.

Il vigatese, per Camilleri, non è solo lingua inventata: è il modo di comunicare con i lettori, quasi un linguaggio privato. All’inizio può sembrare difficile, ma, una volta nel gioco, diventa qualcosa di unico. È un patto tra lui e chi legge. La lingua l’ha sempre vissuta così: da bambino ascoltava il dialetto della nonna, poi il siciliano peculiare dei soldati italo-americani sbarcati in Sicilia. Al collegio vescovile, invece, era vietata qualsiasi inflessione e, se scappava una parola dialettale, si veniva puniti: così, lui sfidava le regole, usando parole italiane arcaiche che parevano siciliane, sfidando i docenti a cercarle sul dizionario. È soprattutto per questo che è stato tanto amato. Come è accaduto con Meneghello o con Tolkien: ti fanno entrare in un linguaggio tutto loro. Impari i nomi, i modi di dire, e proprio quella complessità crea il legame. Le parole diventano narrazione. Non importa quanto difficile sia un termine, ma il suo effetto. Ti coinvolge, ti fa sentire parte di qualcosa. È per questo che viene voglia di usarle, di condividerle. I cabasisi, ad esempio!

Nel 1949, giovanissimo, Camilleri manda al premio Libera Stampa di Lugano un poemetto che non vince il concorso, ma viene segnalato dalla giuria insieme ad altri di Danilo Dolci, David Maria Turoldo e Maria Corti. Che valore ha questo primissimo riconoscimento?

Enorme, perché il primo, internazionale e non certo un premio minore. Anzi. Questo dice molto anche del legame culturale che c’era tra la Svizzera e la poesia italiana. A Lugano, viene segnalato insieme a Zanzotto e Pasolini, già visto come poeta capace di raccontare il periodo della guerra. La poesia poteva davvero diventare la sua strada.

Camilleri ha avuto successo anche all’estero. Come si traduce una lingua così complessa?

I traduttori hanno fatto un lavoro incredibile, avvicinando la lingua originale alle espressioni del posto, rispettando suono e ritmo. In Germania, per i romanzi storici, hanno usato una lingua simile a quella della burocrazia ottocentesca tedesca. In altri Paesi hanno lasciato alcune parole in originale, spiegandole in nota. Camilleri ha avuto rapporti diretti con tutti i suoi traduttori, perfino con chi si occupava del basco e del turco. Si tratta di un vero lavoro di sperimentazione, soprattutto sul piano fonetico. Molti traduttori sono, prima di tutto, scrittori, e si vede. La cosa davvero sorprendente è che, nonostante tutto, il primo grande successo arriva proprio grazie a quella lingua così radicata nella sicilianità, che però parla a tutti.