‘Io, Lapo e gli altri’ è il titolo scelto dall'Endorfine Festival per l'incontro con il comico e imitatore italiano, sabato 20 settembre a Lugano
Il suo processo di clonazione sta, per sua stessa ammissione, tra Gigi Sabani il cui lavoro prescindeva dal trucco e dalla somiglianza fisica degli interessati e l’Alighiero Noschese della completa mimesi, che invece sul trucco faceva leva eccome. Sabani e Noschese stanno agli estremi di Ubaldo Pantani, che in mezzo ci ha messo di suo per consegnare all’arte dell’imitazione non mere copie degli originali ma versioni 2.0. Con Pantani, chiunque – da Massimo Giletti nudo come il re al Lapo Elkann cortocircuito culturale, fino alla gente di calcio ridimensionata nei propri deliri d’onnipotenza – viene smontato e rimontato e riconsegnato alla storia, a volte anche migliore dell’originale. Con un piede sempre nella satira, ben venga se spietata, Pantani è il Noschese del secolo in corso. Una laurea in scienze politiche all’Università di Pisa con una tesi in “Metodologie e Tecniche della Ricerca sociale sulle applicazioni del linguaggio comico nell’apprendimento” (dal sito ufficiale), allievo di Giorgio Albertazzi al Laboratorio d’arti sceniche di Volterra, da cui ruoli drammatici con il Teatro Sant’Andrea di Pisa, l’esordio televisivo in ‘Macao’ di Giorgio Boncompagni nei panni dell’archeologa americana Jennifer Sullivan, poi un lento crescendo culminato nel ‘Mai dire’ della Gialappa’s.
‘Io, Lapo e gli altri’ è il titolo dell’appuntamento dell’Endorfine Festival che lo riguarda, sabato alle 21.15 al Palacongressi, dove l’artista italiano racconterà al pubblico luganese come nascono i suoi personaggi. Questo mentre il suo 2025 sta tra ‘Pantani racconta Bartali’, un racconto di ciclismo che più ciclistico di così non si potrebbe, e ‘Inimitabile’, la genesi completa dei suoi personaggi portata a teatro. «‘Inimitabile’ come la storia di ognuno di noi», ci dice l’Ubaldo aspettando Lugano, «perché inimitabili sono il protagonista e il suo punto di vista».
Ubaldo Pantani. La sua, di genesi, era in ‘Born in the Solvay’, titolo springsteeniano per spettacolo autobiografico…
‘Born in the Solvay’, prima di ‘Inimitabile’, è stato il mio primo spettacolo comico vero e proprio, nato solo due anni fa perché fino al 2023, negli spazi lasciati liberi dalla Tv, mi ero dedicato al teatro civile di narrazione, la storia è una delle mie passioni. Alla soglia dei cinquanta ho voluto raccontare il mio rapporto con le radici. ‘Born in the Solvay’ perché sono cresciuto a Ponteginori, un paesino nel quale si estrae il salgemma, che arrivando agli stabilimenti di Rosignano viene trasformato in bicarbonato e i resti della lavorazione vengono buttati in mare affinché si compia la metafora perfetta per un trasformista, la trasformazione del Tirreno in un illusorio Mar dei Caraibi.
È vero che la sua prima imitazione fu quella di Enrico Beruschi?
Beruschi fu una delle primissime, perché all’inizio facevo le imitazioni di Gigi Sabani, poi nel corso degli anni ho cercato di fare un lavoro più alla Noschese, in un certo senso ‘scomparendo’. Ora cerco di alleggerire un poco i trucchi anche perché sono pesanti, così nelle interviste-spettacolo riesco a fare tanti personaggi senza per forza dovermi truccare.
Qualche tempo fa a Bellinzona, Cochi Ponzoni raccontò di quando Enrico Beruschi gli chiese di fargli provare il palco del Derby, perché da direttore commerciale della Galbusera qual’era al tempo, a causa della comicità innata, quando parlava ai sottoposti non veniva mai preso sul serio. Anche i suoi studi di scienze politiche, Pantani, sono stati una copertura?
Devo dire che in quegli anni di università avevo già sviluppato una passione per questo lavoro attraverso la musica. Pur non avendo mai cantato e suonato, veneravo gli Skiantos e in particolare la figura di Freak Antoni. La performance artistico-musicale mi ha sempre affascinato, quella comica è nata in maniera amatoriale, ma è sempre cresciuta ‘sotto’. Oltre a stare con gli amici e a divertirmi con la compagnia teatrale del paese avevo tutte le restanti energie assorbite dal calcio, in quanto calciatore dilettante. Poi, dopo essermi fatto male alla tibia due volte in un anno e mezzo, mi sono detto che nella vita avrei voluto fare la seconda cosa che amavo di più dopo il calcio, e cioè il lavoro che faccio oggi. Questo dopo che nel 1997 avevo già iniziato a lavorare con Boncompagni. Ma mi ci è voluto quel restare fermo a letto, che io chiamo “i miei quaranta giorni nel deserto”, per capire in realtà cosa volessi fare. E dunque, per tornare alla sua domanda, gli studi in scienze politiche non sono stati una copertura, ma qualcosa di prezioso a prescindere dal lavoro che poi ho scelto. Mi piace pensare che mi siano serviti anche per fare ridere.
Quanto invece le è servito lavorare nella compagnia teatrale di Giorgio Albertazzi?
Tanto. Albertazzi mi ha dato la possibilità di vedere con occhi spietati il mondo dello spettacolo e il mestiere di attore. Ho avuto una formazione teatrale accademica, legata alla poesia, ma i suoi insegnamenti più importanti sono stati quelli relativi alla filosofia dell’attore, su quanto sia totalizzante esserlo, su come il ruolo richieda una dedizione assoluta. Ringrazio il cielo di avere incontrato Albertazzi, ritrovarmi a contatto con lui è stato illuminante anche per rapportarmi con il mio mondo. Alla mia età, le modalità e i meccanismi ormai sono chiari, ma in gioventù Giorgio mi ha sempre messo in guardia dalla crudeltà del mestiere, un’attenzione che mi ha fatto e ancora mi fa molto comodo.
Lei deve molto al calcio ma anche il calcio le deve molto. È l’essere stato calciatore che le permette di ironizzare sul mondo del pallone, che non è esattamente un esempio di autoironia? Penso al ‘90° Minuto’ Mediaset di Bonolis, giusto vent’anni fa, chiuso per troppa ironia…
Quell’anno c’era la Gialappa’s, non a caso. Ne ho parlato con loro un paio di settimane fa al ‘Goal! Festival’ di Pisa, dove siamo stati invitati. I Gialappi hanno raccontato di cos’era in quegli anni il mondo del calcio, di come si prendesse molto sul serio e di quanta difficoltà avessero trovato a scardinarlo. L’aver calcato i campi di calcio, seppur a livello dilettantistico, mi ha permesso di maneggiare bene la materia dal punto di vista relazionale, perché le dinamiche giocatore-allenatore sono le medesime dalla Serie A alla terza categoria, anche se poi il mestiere del comico è riconducile a una legge precisa, saper far ridere oppure no, e di quanto tu t’intenda di quello sport poco importa. Però il fatto di conoscere il calcio, di amarlo, di averlo praticato, mi è d’aiuto nelle sfumature.
In quanti si sono offesi?
Delle persone legate al calcio potrei dire Luciano Spalletti, che anni fa mi guardava un po’ di sottecchi, ma l’ultima volta che ci siamo visti abbiamo fatto la foto insieme, parlato e scherzato. Ricordo un’imitazione di Tonio Cartonio (il folletto della ‘Melevisione’, programma per bambini di Rai 3, ndr), che ci rimase un po’ male. L’ho incontrato quest’anno, gli ho chiesto scusa se mai si fosse offeso e abbiamo riso. A parte questo, chi si offende mi ignora, che è la cosa peggiore che si possa fare a un artista. Ma il mio obiettivo principale è sempre stato quello di cercare di far ridere, non tanto di provocare in maniera fine a sé stessa. Il confine tra satira è invettiva è assai labile.
Penso a uno come Giletti, colpito e affondato nel suo amarsi a dismisura…
Sì, forse all’inizio Massimo avrà storto un po’ la bocca, ma io, lui e altri personaggi come Paolo Fox ci conosciamo da anni, siamo cresciuti insieme.
Non posso non chiederle come e quando nasce Lapo Elkann.
Ero a ‘Mai dire domenica’ e venne fuori quest’idea di fare Lapo che se n’era appena uscito con l’iniziativa delle felpe con sopra la scritta Fiat, che tanto funzionavano. Lui fu da subito carino e autoironico, a differenza di Sergio Marchionne che minacciò di togliere la pubblicità a Mediaset se io non avessi smesso. Fortunatamente l’azienda tenne botta e Lapo mandò felpe a tutti, con la squadra del cuore. Nel corso del tempo siamo diventati amici.
‘I personaggi ti succhiano l’anima’, parole sue. C’è il rischio che maschere così definitive come Lapo Elkann oscurino chi c’è sotto? Penso a Paolo Villaggio e a Fantozzi, che a un certo punto sono diventati una cosa sola…
Mi auguro di no, anche perché i miei personaggi sono tanti e quelli fortunati sono più d’uno. Proprio per evitare questo rischio, Lapo ha avuto i suoi intervalli. L’ho fatto con i Gialappi, poi l’ho ripreso per un anno e mezzo con Simona Ventura a ‘Quelli che il calcio’ nel 2010, e riproposto nella collaborazione con Fabio Fazio, e sulla Nove lo faccio soltanto al Tavolo. Ma credo che Cacciari, Vespa, Barbieri e tanti altri abbiano trovato un loro spazio, e di questo sono contento. So bene che se un personaggio funziona, allora ne devo trovare subito degli altri, sennò si rimane bloccati.
Di fronte agli accadimenti del mondo, alcuni suoi colleghi dicono di fare con tanta fatica, a volte, il mestiere di comico. È cosa che succede anche a lei?
Sì, capita anche a me ed è inevitabile. Penso ai politici che fanno i simpatici e a volte sono involontariamente più comici dei comici, e tra la caricatura e la persona non c’è tanta distanza. Negli anni Settanta i politici avevano una sacralità tutta loro, anche nella modalità con la quale si relazionavano al pubblico, senza concessioni all’ironia. Ora la maggior parte di essi, anche grazie alla pesante esposizione concessa dai social, inseguono quell’affabilità continuata che annacqua un po’ il tutto e rende meno sacro il personaggio. E se la tua intenzione è quella di dissacrarlo, allora esiste un problema.
‘Pezzi’ è un omaggio a papa Francesco (“la terza guerra mondiale a pezzi”). “‘Pezzi’ come gli articoli giornalistici o le parti di uno sketch”, dalle note di presentazione. È il tema dell’anno di Endorfine, che si apre domani alle 21 con la filosofa statunitense Susan Neiman, nell’incontro a tema Donald Trump. Di sabato alle 11, l’ex calciatore oggi commentatore Daniele Adani; alle 15, panorama sulla geopolitica con Diego Fabbri; alle 17.20, Anabel Hernandéz, giornalista investigativa messicana nota per le sue inchieste sulla droga, inserita da ‘Reporters sans frontières’ nella top 100 degli eroi mondiali dell’informazione e insignita ieri del ‘Premio Marco Borradori - In tutto ciò che genera bellezza’, assegnato annualmente da Endorfine. Poi, Ubaldo Pantani.
Di domenica alle 11, spazio al poliedrico Fabio Volo; alle 15 Annie Jacobsen, finalista al Premio Pulitzer e tra le maggiori studiose di segreti militari e intelligence statunitense, si cala sul tema del rischio nucleare. Per finire, alle 17.30, Roberto Saviano, l’autore di ‘Gomorra’, scrittore da vent’anni sotto protezione (tutte le informazioni su www.endorfine.ch).