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Perché la nostra mente sabota la lotta al clima

Il filosofo Matteo Motterlini spiega come i bias del nostro cervello rendano difficile affrontare il riscaldamento globale. E come cambiare mente e clima

19 settembre 2025
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La crisi climatica non è solo una questione di emissioni, temperature, fonti di energia rinnovabili. È anche una questione di come funziona la mente umana, di come prendiamo (o non prendiamo) le decisioni che riguardano il clima e il futuro dell’umanità. Da questo approccio parte Matteo Motterlini, filosofo della scienza ed esperto di economia comportamentale all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, per il libro ‘Scongeliamo i cervelli, non i ghiacciai’ appena pubblicato per Solferino.

Dal punto della climatologia, il discorso è, nelle sue linee generali, abbastanza semplice: gli esseri umani producono e immettono nell’atmosfera gas a effetto serra (CO2, ma anche vapore acqueo, metano e altre sostanze); le conseguenze sono temperature medie globali più alte, eventi meteorologici estremi più intensi e frequenti con effetti sugli ecosistemi e la salute umana. Gli scenari sul clima del futuro – e le prime conseguenze che, anche in Svizzera, iniziamo a vedere – provocano ansia in alcune persone. Ma non sembrano portare a interventi importanti. Possiamo anzi dire che il problema è stato ignorato per oltre un secolo, se pensiamo che il legame tra concentrazione di CO2 e temperature è noto dal 1856, grazie alle ricerche di Eunice Newton Foote.

Perché questa inerzia? Non è solo questione di interessi economici – che sono in ogni caso una parte importante della storia e che, come vedremo, sono comunque legati a come funziona la nostra mente –, ma come accennato di come noi esseri umani, animali a razionalità limitata, interpretiamo la realtà e prendiamo decisioni.

Il nostro cervello, ad esempio, si adatta progressivamente alle nuove condizioni, nascondendo alla nostra attenzione un cambiamento graduale come l’aumento delle temperature medie globali. È il fenomeno dello “spostamento della linea di base”, conosciuto soprattutto con la “metafora della rana bollita” che, secondo un’analogia resa popolare da Noam Chomsky, non si accorge che l’acqua raggiunge progressivamente temperature sempre più alte. Solo che, come nota con ironia Motterlini nel suo saggio, le rane in realtà se ne rendono conto e saltano fuori dall’acqua ben prima di finire bollite – lo stesso non si può dire per gli esseri umani. A questa “cecità cognitiva” verso i cambiamenti regolari si aggiungono altri fenomeni studiati dalla psicologia e che Motterlini, nel suo saggio, presenta in maniera chiara. Abbiamo ad esempio il bias del presente che ci porta a preferire un beneficio immediato rispetto a uno, anche maggiore, futuro; oppure la preferenza per lo statu quo, che rende difficile modificare abitudini consolidate, e l’ottimismo irrealistico, per cui tendiamo a credere che gli effetti negativi colpiranno altri ma non noi.

Se una specie aliena perfettamente razionale decidesse di invadere la Terra, scrive Motterlini, non dovrebbe organizzare una invasione su larga scala che porterebbe a una reazione immediata. La strategia migliore, scrive Motterlini nel primo capitolo, sarebbe “una minaccia lenta, insidiosa, distribuita su un arco temporale di generazioni”. Come il cambiamento climatico che – meglio precisarlo – è faccenda tutta terrestre e umana. Come umana e terrestre è una possibile soluzione per illustrare la quale Motterlini ricorre non alla fantascienza, ma narrazioni ben più antiche: Ulisse sa che non riuscirà a resistere al canto delle sirene e decide quindi legarsi all’albero della nave: conoscendo i propri limiti, Ulisse ha creato vincoli e strutture che lo hanno obbligato ad agire nel proprio interesse a lungo termine.

Professor Motterlini, inizio con una domanda che ricalca proprio uno dei ‘bias’ che lei affronta nel libro, quello dell’ottimismo. Lei descrive diversi meccanismi mentali che rendono difficile affrontare la crisi climatica e al contempo presenta alcune strategie per affrontarle: nel complesso pensa che potremmo riuscire a gestire questa “emergenza anomala”?

Partiamo dal paradosso che ho scritto un libro che spiega perché alle persone non interessa un libro come questo. E già questo la dice lunga. Il cambiamento climatico è un’emergenza anomala, perché ci chiede di agire ora per evitare danni futuri. Ma noi, come specie, non siamo bravi in questo. Preferiamo hamburger e patatine subito piuttosto che arterie pulite domani. È un problema evolutivo: abbiamo un cervello del Pleistocene alle prese con un disastro del XXI secolo.

Viviamo sempre più a lungo, ma pensiamo sempre più a breve. La politica guarda al prossimo sondaggio, le aziende al bilancio trimestrale, e noi al prossimo ‘like’ sul telefono. E intanto il pianeta brucia. O meglio: si surriscalda lentamente, e proprio per questo facciamo fatica a reagire. Se il cambiamento climatico fosse un meteorite che ci cade addosso, ci saremmo già mobilitati. Ma non lo è. È un processo lento, graduale, che non attiva il nostro sistema d’allarme.

Eppure, nonostante tutto, sì, penso che possiamo farcela. Ma a due condizioni. La prima è che smettiamo di affidarci all’illusione della “tecnosalvezza” – il sogno che una qualche tecnologia futuristica ci tirerà fuori dai guai senza cambiare nulla delle nostre abitudini. La seconda è che capiamo che il vero nodo non è solo ecologico, ma cognitivo: è il nostro modo di pensare che è diventato insostenibile.

Serve un salto di consapevolezza. Non possiamo più aspettarci che il cambiamento arrivi dall’alto o da qualcun altro. Dobbiamo attivare meccanismi di pre-impegno, come Ulisse con le sirene, e vincolarci a scelte che proteggano il futuro da noi stessi.

La buona notizia è che la cooperazione, quando si attiva, è contagiosa. E molto più duratura della rassegnazione. Nessuno salva il pianeta da solo. Ma insieme, sì, possiamo ancora cambiare rotta. Purché iniziamo oggi.

Come mostra nel capitolo dedicato al capitalismo limbico, il fatto che non siamo macchine perfettamente razionali è noto in economia e sfruttato per vendere certi tipi di prodotti. Forse il vero problema non è né il clima né la nostra mente, ma un sistema economico (e politico) volto a favorire alcuni interessi particolari di breve periodo.

Sì, non siamo perfettamente razionali ma il problema non è tanto che non lo siamo. Il problema è che c’è un intero sistema che lucra proprio su questo fatto. È quello che hanno definito, appunto, “capitalismo limbico”: un sistema che non si rivolge al nostro cervello razionale, ma a quello impulsivo, emotivo, ancestrale. Lo stesso che ci spingeva a scappare da un predatore o a divorare frutta zuccherina nella savana. Solo che oggi non c’è più il predatore, e al posto della frutta ci sono snack confezionati, scroll infiniti e spot personalizzati.

Il nostro smartphone è una macchina per la stimolazione dopaminergica continua. Il nostro sistema della ricompensa è costantemente sollecitato da notifiche, promozioni, ‘like’ e acquisti in un click. Abbiamo barattato il capitale naturale della Terra con una crescita drogata di consumo immediato. Una crescita che misura tutto, tranne la salute degli ecosistemi.

Stiamo trattando la Terra come se fosse un’azienda in liquidazione. Nessuna manutenzione, nessun investimento a lungo termine. Solo sfruttamento del capitale per massimizzare i profitti nel prossimo trimestre. E noi, gli azionisti – cioè gli abitanti del pianeta – assistiamo compiaciuti ai rendimenti, senza accorgerci che alla fine resterà solo il conto da pagare. Ai nostri figli.

I meccanismi mentali che ci portano a sottovalutare la crisi climatica favoriscono anche “contronarrazioni” che sconfinano nella disinformazione e nel complottismo. Qui che tipo di difese cognitive possiamo usare?

Il negazionismo climatico non nasce solo da ignoranza, ma da un bisogno psicologico: proteggerci dal disagio che proviamo quando i fatti entrano in conflitto con il nostro stile di vita. È una forma di dissonanza cognitiva: se ammetto che il riscaldamento globale è reale e causato da noi, dovrei cambiare. Ma cambiare è faticoso, quindi preferisco cambiare la narrazione. A rafforzare questa fuga dalla realtà ci sono tre bias: il bias di conferma, che ci fa cercare solo ciò che conferma le nostre opinioni; l’ottimismo irrealistico, che ci illude che “succederà agli altri”; e l’effetto spettatore, che ci fa pensare che spetti ad altri agire. Per smascherare i negazionismi serve imparare a riconoscere le tecniche retoriche che usano e “vaccinare” la mente con esempi smontati in anticipo.

Concludo con una domanda interessata: come dovremmo, noi giornalisti, raccontare la crisi climatica evitando le trappole cognitive che generano inerzia e immobilismo?

Il modo in cui comunichiamo la crisi climatica può fare la differenza tra il generare ecoansia paralizzante e l’attivare comportamenti trasformativi. Oggi molti cittadini – soprattutto i più giovani – vivono uno stato di ecoansia crescente: sentono l’urgenza della crisi, ma non vedono vie d’uscita. Il rischio, come spiego nel libro, è quello di scivolare nell’inerzia per impotenza: “è troppo tardi”, “non serve a nulla”, “tanto nessuno fa niente”.

Un errore frequente è comunicare in modo allarmistico e accusatorio: titoli catastrofici, toni apocalittici, oppure appelli moralistici che sottolineano tutto ciò che non facciamo. Ma la psicologia ci insegna che questo tipo di narrazione attiva la paura, sì – ma senza speranza, la paura non motiva, blocca.

Serve invece una comunicazione che renda visibile il cambiamento in corso. Non dire “solo il 20% ricicla”, per esempio, ma dire “sempre più persone stanno scegliendo alternative sostenibili”. Non “la Svizzera è indietro”, ma dire che “in molte città svizzere stanno già sperimentando soluzioni efficaci”. Le norme sociali sono potenti: se pensiamo che gli altri si stanno muovendo, siamo più propensi a farlo anche noi.

E poi: raccontare storie. Di comunità che si organizzano, di imprese che innovano, di cittadini che cambiano abitudini. Non come eroi solitari, ma come parte di un movimento. Perché il cambiamento climatico richiede di immaginare insieme un futuro in cui valga la pena credere.