È in posti come quello che Stefano Benni ha piazzato la sua camera oscura narrativa, dalla quale sono usciti i negativi e positivi di un Paese intero
Prima che diventasse oggetto di un processo di riscoperta radical chic c’è stata a lungo un’Italia che non era facile da identificare sulle mappe perché era ovunque, un po’ reietta e zero mistificata: un’Italia per la quale siamo passati tutti, almeno una volta, cristallizzata nei banconi in formica, nelle luci al neon che sputavano riflessi lattiginosi, nei televisori appesi a un gancio che gracchiavano partite sgranate. Insomma, tutti quei Bar Sport attorno ai quali ruotava la vita della provincia, e di noialtri che ci vivevamo.
In quei posti, Stefano Benni ha piazzato la sua camera oscura narrativa. Da quei posti ha fatto uscire negativi e positivi che erano specchio di una realtà precisa ma anche, più nel profondo, di un Paese intero.
Meglio di chiunque altro Benni – che se ne è andato ieri portandosi via un pezzettino della nostra carriera di lettori, oltre che di privilegiati viveurs della provincia – ha saputo guardare al mondo con gli occhi spalancati dell’inventore di favole metropolitane. Ci ha insegnato che dietro ai tavolini storti dei bar, sotto le zampe delle sue sedie sghembe, si nasconde una dimensione epica. Ma non l’epica patinata che scoprivamo sulle pagine del Guerin Sportivo di metà anni Novanta, che sarebbe diventata la cifra del racconto negli anni a venire (anche) della provincia, ma piuttosto l’epica sghemba e dolceamara del calcio da cortile, delle infinite partite più raccontate che giocate, di palloni sgonfi e rigori sbagliati con tutto il dramma del caso, di campioni di cartone e portieri ciccioni che si chiamano come semidivinità improbabili. L’epica che sarebbe arrivata ad accarezzarci nelle parole di Osvaldo Soriano, di Eduardo Galeano, ma che dieci, quindici anni prima era già intorno a noi, e non ce ne eravamo accorti.
Omero ha avuto Achille e Ulisse, Osvaldo Soriano el gato Díaz e il figlio di Butch Cassidy. Stefano Benni si è inventato ragazzini centravanti nei campetti spelacchiati, potreros attorniati non da Buenos Aires ma dalla provincia emiliana, in bilico tra il benessere tronfio del boom economico e i prodromi del disagio tratteggiati da Pier Vittorio Tondelli nella confinante provincia emiliana; ha tratteggiato la figura del Barista, che conosce sempre l’ultima versione, ma mai quella giusta; degli esperti-da-bar, genia di cui l’Italia – terra di poeti, santi, navigatori e allenatori della domenica – è sempre stata, e continua a essere, particolarmente prodiga, a testimonianza che quella dimensione, quella del Bar Sport, è immarcescibile, eterna. Ogni personaggio di Benni è un residuato mitologico di un’Italia che ha imparato ad arrangiarsi, a sognare la schedina, a raccontarsi il mondo come un posto più semplice di quello che era (e che è). Quella sarebbe diventata, in qualche modo, la nostra Arcadia, il luogo della nostalgia, ma anche dell’esperienza universale: chi di noi, almeno una volta nella vita, non ha segnato un gol decisivo senza spettatori, per poi raccontarlo mille volte al bar fino a farlo diventare così tangibile da darti l’impressione di averlo vissuto in mondovisione?
L’intuizione di Stefano Benni, l’invenzione più fulgida è stata quella di dare al barista e ai suoi clienti, in Bar Sport, lo stesso potere che in un villaggio dell’antica Grecia aveva il rapsodo – e che giusto un anno più tardi, in “Azzurro tenebra”, Giovanni Arpino avrebbe conferito ai suoi personaggi Arp, Bibì e Walf: narrare per trasformare, non foss’altro che nella percezione di chi ascolta. Una moviola che non è esercizio stilistico fine a sé stesso, metanarrativo, ma palingenetico: ogni racconto è, in qualche modo, riscrittura, e quindi mitopoiesi. Parate che assurgono a miracoli biblici, gol sbagliati da un ragazzino sul campetto dell’oratorio che assumono i connotati di un dramma degno di Sofocle.
Da quel Pantheon-Anni-Settanta di penne che non si sono mai asservite – ma che piuttosto sono servite – al calcio, che ci hanno insegnato a parlarne con umorismo e al contempo profondità filosofica, gotha nel quale Benni si merita un posto al fianco di Brera, di Arpino, di Pasolini, ma anche di Campanile e Balestrini, abbiamo imparato un assunto ineludibile: il calcio, alla fine della fiera, non è mai solo calcio. È romanzo collettivo, mitologia condivisa, una gigantesca bugia che tutti sappiamo falsa, ma alla quale vogliamo credere con tutte le nostre forze, e alla quale ci affezioniamo come gli avventori del bar si affezionano alla Luisona, mitologica pasta che finisce per diventare una di famiglia. Se al Bar Sport ci dicono che quello laggiù, che gioca a briscola e si fuma un pacchetto di sigarette in un’ora, una volta in un torneo estivo ha fermato Van Basten, ecco: noi ci crediamo, perché il Bar Sport è il sancta sanctorum della sospensione dell’incredulità.
Se provassimo a chiederci qual è il segreto della fortuna duratura del Bar Sport – inteso non solo come opera di Benni, che alla vigilia del suo mezzo secolo d’età sembra essere invecchiata egregiamente, ma anche come dimensione – non sapremmo darci che una sola, inequivocabile risposta: non solo non c’è niente di più nazionalpopolare, nei temi e nella lingua con cui quei temi si affrontano, del Bar Sport, ma soprattutto non c’è luogo come quello capace di farsi epicentro dell’epica minore, anzi, per meglio dire, pretesto per l’epica.
Perché non c’è posto più compiuto in cui le anime evocate dalla scrittura di Benni – per noialtri che in provincia ci siamo cresciuti le nostre anime – sanno intrecciarsi tra partite in tv, mitologia, briscole e Peroni, esagerazione smargiassa che si gonfia e gonfia fino a diventare eterna. Bastano un biliardino, un televisore che gracchia, un manipolo di narratori improvvisati. Mutuando De Gregori, in fondo, quella storia siamo noi, seduti al Bar Sport, dove tutto è più grande, smisuratamente più grande, e gloria e fallimento sono più epici, commoventemente più epici.