Global Sumud Flotilla, un viaggio contro la scissione tra ciò che viene proclamato e ciò che davvero si fa, tra ciò che crediamo di essere e ciò che siamo
In questi giorni, spiegando le ragioni che l’hanno spinto a imbarcarsi con la Global Sumud Flotilla, Vanni Bianconi ha insistito su due punti. Primo, portare soccorso ai civili assediati, bombardati e ridotti volontariamente alla fame nella Striscia di Gaza, impresa forse disperata ma necessaria. Secondo, provare a spezzare l’incanto della menzogna e dell’autoinganno che sembra soggiogarci a tutti i livelli, da quello individuale fino a quello delle organizzazioni internazionali con le loro convenzioni trattate come carta straccia, passando ovviamente dai Ministeri degli esteri di governi nazionali che potrebbero fare molto ma, per opportunismo economico e politico, preferiscono tergiversare.
Vorrei condividere alcuni pensieri sul secondo punto, senz’altro meno urgente del primo, ma sul quale è comunque urgente riflettere: autoinganno, malafede, scissione tra ciò che viene proclamato e ciò che effettivamente si fa, tra ciò che crediamo di essere e ciò che siamo.
Bianconi è un poeta, scrittore e traduttore che da anni pratica la letteratura come una possibile forma di comprensione, espansione, interrogazione e condivisione dell’esperienza umana; la traduzione come accoglienza dell’altro e delle altre culture; le lingue come patrimoni collettivi interconnessi, capaci, se ascoltate e usate con rispetto e attenzione, di dare vita alla vita.
In un’intervista radiofonica (Alphaville, Rete 2, 2 settembre 2025), Bianconi si è chiesto: “Cosa succede all’umanità se continuiamo a mentirci in questo modo?”, cioè a comportarci a oltranza in modo schizofrenico? Si potrebbe abbozzare un elenco di temi sui quali la scissione tra i nostri discorsi e le nostre effettive scelte di vita private e collettive risulta, a chi solo voglia guardare, con paurosa evidenza. Sarei tentato di parlare, ad esempio, di tutto ciò che di cosmetico e truffaldino mettiamo in atto per non affrontare la crisi climatica che colpirà duramente le prossime generazioni, ma non vorrei allontanarmi troppo dalla Palestina.
È molto istruttiva, in merito alla questione linguistica, la lettura che Pietro Majno-Hurst ha offerto su Naufraghi/e (naufraghi.ch) dell’intervista al Telegiornale Rsi al consigliere federale Ignazio Cassis dello scorso 3 giugno. Alla richiesta di prendere posizione rispetto ai crimini contro l’umanità perpetrati dal governo Netanyahu nella Striscia di Gaza, crimini oggi qualificabili con il termine di “genocidio” (cfr. l’intervista a Omer Bartov, studioso della Shoah, professore alla Brown University, trasmessa dal Telegiornale Rsi il 2 agosto 2025), Cassis sembra produrre solo affermazioni evasive, senza chiari soggetti grammaticali, con l’unico intento di schermirsi e, in definitiva, di non dire niente che possa risultare in qualche modo impegnativo rispetto alla realtà dei fatti e all’attribuzione anche solo ipotetica (o all’assunzione) di qualche responsabilità. È questa la politica? A volte – troppe volte – purtroppo sì.
Alla fine di luglio 2025 l’alta funzionaria del Dipartimento federale degli affari esteri Monika Schmutz Kirgöz ha partecipato a New York a una conferenza su Palestina/Israele e la soluzione a due Stati. In un’intervista trasmessa dal Telegiornale Rsi il 30 luglio 2025, alla domanda su quale ruolo possa avere la piccola Svizzera in questo contesto, ha risposto: “Spero che possiamo avere il nostro ruolo. Lo abbiamo: siamo comunque una potenza umanitaria. Ora dobbiamo capire come fare, insieme all’Onu, a fare entrare nella Striscia di Gaza abbastanza aiuto umanitario, ma anche medicine, cibo… manca tutto!”
Mi piacerebbe sapere, dopo un mese e mezzo (un tempo lunghissimo quando “manca tutto”), se nel frattempo lo hanno capito, il “come fare”, perché di fatto sul terreno, stando alle testimonianze che ci giungono, è cambiato ben poco. Ma soprattutto mi colpisce una frase, chiaro sintomo della dissociazione denunciata da Bianconi: “Siamo comunque una potenza umanitaria”.
E così, attraverso questo uso delle parole indifferente al loro significato, si arriva al punto in cui il ministro israeliano della Sicurezza Ben Gvir può definire “terrorista” una missione umanitaria condotta in modo legale e pacifico attraverso acque internazionali e minacciare il sequestro delle imbarcazioni della Global Sumud Flotilla e l’incarcerazione dei suoi equipaggi senza che altri governi – salvo poche eccezioni, come la Spagna – alzino una voce di protesta.
Spero che il consigliere federale Cassis e i suoi collaboratori prendano seriamente il loro dovere di proteggere in tutti i modi a loro disposizione le cittadine e i cittadini svizzeri impegnati nella missione (per questo, invito chi legge a firmare la ‘Petizione al Consiglio Federale: protezione ai naviganti della Global Sumud Flotilla’ sul sito change.org). Attivandosi per proteggere le proprie concittadine e i propri concittadini, Cassis assicurerà una migliore protezione anche a tutte le altre persone coinvolte nella missione, qualunque sia la loro nazionalità, e contribuirà a mantenere viva un po’ di speranza per i superstiti di Gaza – stiamo parlando di più di un milione di persone – che solo una mente accecata dal fanatismo può ritenere interamente colpevoli, dal più vecchio alla più giovane, del terrificante attentato del 7 ottobre e della presa di ostaggi tuttora in corso. (A meno che l’indifferenza con cui si colpiscono i civili e si distruggono scuole e ospedali non sia da imputare, semplicemente, a una feroce forma di razzismo nei confronti degli arabi).
Di questa speranza abbiamo bisogno tutti, per non soccombere alla paura che la scrittrice palestinese Adania Shibli, intervenuta quest’anno a Chiasso Letteraria e nel 2011 al Festival Babel di Bellinzona, proprio su invito di Vanni Bianconi, ha descritto con queste parole: “Ho paura che non arriverà mai il giorno in cui, guardandoci attorno, potremo dire che oggi è meglio di ieri”.
Accanto a questa paura, Shibli ne menziona un’altra, strettamente legata alla sua attività letteraria: “La seconda paura invece è perdere la lingua, svegliarmi un giorno e non averla più”, perché “crescendo in Palestina/Israele ti rendi conto che la lingua è molto più di uno strumento da utilizzare solo per raccontare e comunicare. Può essere attaccata, può essere distrutta, può essere maltrattata” (cito da La lingua rubata. Di letteratura, Palestina e silenzio, Casagrande/Festival Babel, 2025, pp. 24 e 26).
Un sentimento simile dovettero provarlo i poeti del gruppo Dada durante la Prima guerra mondiale, la Grande carneficina. Hugo Ball riteneva che la stentorea retorica nazionalista e guerrafondaia, alimentata da politici e giornalisti condiscendenti, avesse devastato le lingue europee e bisognasse inventarne di nuove. Il 12 giugno 1916 Ball annota nel suo diario che il dadaista crede nell’unità dell’essere e che proprio per questo “patisce le dissonanze fino all’autodistruzione”. Una decina di giorni dopo Ball è sulla scena del Cabaret Voltaire in costume cubista “da magico vescovo” e inizia a leggere le sue famose composizioni fonetiche senza senso. Non si trattava di distruggere il linguaggio, ma, appunto, di reinventarlo da capo, di rigenerarlo cominciando da una specie di lallazione (H. Ball, Die Flucht aus der Zeit, 1927).
Durante la Seconda guerra mondiale, il poeta Francis Ponge, mentre militava nella Resistenza francese, ha adottato un’altra strategia per rispondere alla stessa paura. Si dedicava alle descrizioni di oggetti o eventi ordinari come i ciottoli e la pioggia, sforzandosi di aderire, scrivendo, a ciò che le cose sono o comunicano senza parole, come se volesse rigenerare la lingua francese ripartendo dalla concretezza degli elementi che compongono la nostra realtà più vicina (F. Ponge, Le parti pris des choses, 1942).
Sforzarsi di recuperare sempre le premesse e le conseguenze pratiche di quello che ci si compiace di pensare, è anche questo un modo per conferire valore alle parole e a quello che si dice. È solo nel fare e nel rinunciare a fare, nel boicottare e nell’aiutare in prima persona, vale a dire nelle coraggiose o rassegnate scelte di vita degli individui e delle comunità che il discorso etico-politico potrà riacquistare significato e tornare a essere credibile ai nostri stessi occhi. È una banalità che, nel rumore generale, nell’inondazione di informazioni attendibili e inattendibili che ci sommergono ogni giorno fino allo stordimento, continuiamo a dimenticare.
Le immagini della flottiglia che avanza nel Mediterraneo mi hanno ricordato alcune domande che mi facevo da piccolo quando scoprivo, un po’ alla volta, attraverso narrazioni e filmati, la storia della Shoah. Mi chiedevo ingenuamente perché la gente (chiunque questo termine potesse designare) non fosse andata tutta insieme, in massa, a liberare le persone imprigionate nei campi di sterminio o ammassate nei vagoni piombati fermi nelle stazioni di passaggio. Perché? Perché non l’hanno fatto?
Erano domande ingenue – ora so quanto. Eppure la missione della Global Sumud Flotilla mi ricorda lo stupore con cui mi ponevo quelle domande e mi dimostra che la parola “umanità”, se lo vogliamo, può ancora avere un significato.