laR+ L'intervista

In compagnia dei morti

Incontriamo Maria Nadotti in occasione dell’uscita di ‘La lingua rubata. Di letteratura, Palestina e silenzio’, riflessione e dialogo con Adania Shibli

11 settembre 2025
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Un serpente tenta di mangiare un istrice. La preda, per difendersi, rilascia i suoi aculei nella bocca del suo predatore rimanendo però intrappolata. Muoiono entrambi, in una morsa impossibile da districare. Partiamo da qui. Lasciando che questa istantanea anticipi il pensiero, arrivando prima delle parole.

Non è facile parlare del genocidio in atto in Palestina. Ed è confortante leggere che anche l’autrice in questione, Adania Shibli, si trovi nell’incapacità di dire alcunché, perché non è poi così strano perdere di colpo il linguaggio quando ci si trova nel mezzo della devastazione. Palestinese classe 1974, Shibli è una pluripremiata autrice di romanzi, racconti e opere teatrali. Il suo ultimo libro, ‘Un dettaglio minore’ (La nave di Teseo, 2024), inizialmente selezionato per il premio Litprom in Germania, è stato poi escluso dopo la strage del 7 ottobre, suscitando molte proteste.

Per i vent’anni del festival Babel, in programma a Bellinzona da oggi a domenica, esce in coedizione con Casagrande ‘La lingua rubata. Di letteratura, Palestina e silenzio’, libro che raccoglie un articolo di Adania Shibli e una conversazione con Maria Nadotti tenutasi a ChiassoLetteraria lo scorso maggio. A tradurre il volume Nausikaa Angelotti e Daniela Marina Rossi, parte del team del Festival. Già ospite dell’edizione di Babel Palestina 2011, l’autrice si racconta in una conversazione su scrittura, alfabeto, aritmetica, istrici e serpenti.

Ci siamo divertite entrambe a schivare i temi più ovvi – racconta Nadotti nella prefazione –, quelli che i pubblici acculturati oggi si aspettano quando in campo o sullo sfondo c’è la Palestina. I riflessi condizionati fanno a pugni con il pensiero e con la scrittura. Giornalista, traduttrice, scrittrice, Maria Nadotti si dedica da anni alla questione israelo-palestinese.

Perché si è avvicinata alla Palestina e agli scrittori palestinesi?

Lo considero un dovere morale. Al di là della qualità altissima di alcune opere di autori palestinesi. Penso a Mahmoud Darwish, Ghassan Kanafani o a Etel Adnan. A un certo punto della mia storia mi sono resa conto che quello era un luogo della terra che ci riguardava tutti.

È possibile separare uno scrittore dal contesto geopolitico da cui proviene?

Ognuno di noi scrive da un luogo e da un tempo particolari. Quello che si scrive a 20 anni non lo si potrebbe scrivere a 60. Quindi se nella vita di ognuno cambiano le cose, figuriamoci nell’espressione di una cultura. Il problema è naturalmente come lo si fa. Girerei la sua domanda in questo modo: può un’opera d’arte essere piegata solo ed esclusivamente a una funzione storico-politica? E la risposta è no. Si scrive non per affermare qualcosa ma perché non si può fare a meno di agire altrimenti. Il modo più assoluto di dire ciò che si ha da dire è lasciare spazio al silenzio.

Qual è la forza della scrittura di Adania Shibli?

Proprio la capacità di non dire quello che ci si aspetterebbe da un’autrice palestinese. È una scrittrice, il suo è un corpo a corpo con la lingua. La scrittura diventa potente se risponde solo a sé stessa, se non è strumento di altro.

Nella traduzione dall’arabo quali tratti peculiari della lingua originale rischiano di perdersi?

Il mio rapporto con l’arabo è mediato dalla traduzione in francese, inglese o italiano. Adania stessa mi ha fatto notare quanto sia necessario per un traduttore non solo conoscere la lingua ma avere anche una cognizione storica e politica del luogo e del popolo in cui è parlata. In questo caso bisogna considerare che ci sono una serie di parole marcate dal rapporto coloniale. Termini come ‘clan’ o ‘famiglia’ non sono neutri e vanno pensati alla luce di quello che i paesi colonizzati hanno subìto.

Nel 2003 lo scrittore John Berger, da lei tradotto più volte, tenne a Ramallah un seminario sul senso delle parole in tempi di violenza. Cosa direbbe lui oggi?

In questo momento storico siamo più che mai in compagnia dei morti. Vale la pena ascoltarli. Con gli scrittori è più facile. Berger non era un profeta, ma uno che sapeva leggere quei segni che spesso non vediamo. Lui affermava che va coltivata con passione e tenerezza la speranza, perché non ci sono momenti della storia peggiori di altri. La storia è un processo, un farsi continuo. È buia, ma dobbiamo imparare a starci dentro vigilando con attenzione, senza mai essere passivi.

L’ultimo festival del Cinema di Venezia si è aperto con le polemiche sull’opportunità di invitare artisti dichiaratamente filoisraeliani. Cosa ne pensa?

Non ho risposte pronte sull’argomento. Ci sto riflettendo anche io. Sento che molti di noi hanno un gran desiderio di dare voce a un forte disagio rispetto a quanto sta accadendo. Anche gli ultimi ritardatari ammettono che è in corso un’annessione violenta. Io penso che si debba sempre agire. Ognuno con i propri strumenti. Il rischio di trasformare tutto in un grande circo è dietro l’angolo, però. Il potere di neutralizzazione che hanno tutti gli atti mediatici è forte, sono riflettori intermittenti.

Che ruolo hanno gli artisti di fronte a questo momento storico?

Mi sono accorta con dolore che i linguaggi con cui si affrontano le questioni sono diventati più grezzi, elementari. Continuo a pensare che di fronte a quello che sta succedendo si debba continuare a parlare, ammettendo anche che ci sono cose su cui non abbiamo niente da dire. Bisogna evitare le semplificazioni e i discorsi ideologici. Adania Shibli è attentissima a questo. Gli artisti hanno un dovere molto alto, che comporta anche ammettere che in questo momento si è ridotti al silenzio non dai censori ma dalla storia, dalla magnitudine degli eventi.

In un articolo del 2022 su doppiozero, lei afferma che la realtà si è trasformata in una fiction a distanza, e che le vecchie forme di lotta si sono sfibrate. Oggi, però, assistiamo a qualcosa di nuovo: una mobilitazione globale dal basso contro il genocidio in corso, nel tentativo di fare ciò che i governi non fanno.

In realtà è già successo, in passato. Pensiamo al Vietnam. La guerra fu messa in crisi dalla società civile. Ci fu una mobilitazione pazzesca che, peraltro, sancì la fine della leva negli Stati Uniti. Un altro esempio è stato nel 2003, con l’Iraq, quando ci fu un forte scollamento tra la cittadinanza e chi aveva il potere di decidere. Adesso il divario è assoluto. Cosa bisogna fare per farsi ascoltare?

La mobilitazione di piazza non è inedita ma fenomeni come le navi della Freedom Flotilla sì...

Certo, qui parliamo di interventi di civili pacifici che portano il proprio corpo sul terreno di guerra. O almeno ci provano. Sono azioni molto belle, purtroppo molto simboliche. E con questo non sto dicendo che l’atto simbolico non abbia un peso. Ma sono convinta che bisogna arrivare ai piani alti. Chi ha il potere di metter fine a tutto questo potrebbe farlo in fretta. Bisogna capire cosa fare per farglielo fare. E continuare con le azioni di piazza, che non hanno meno valore di una nave in partenza per Gaza.

Babel20!

Italiano e dintorni

Babel apre oggi allo Spazio 5b con le artiste Adriana Beretta e Alessandra Spranzi nella mostra ‘Vocabolario’. Alle 21, il Forum proietta ‘Dora oder di sexuelle Neurosen unserer Eltern’ di Stina Werenfels, da una pièce di Lukas Bärfuss, ospite del festival. Domani alle 12.30 a Palazzo Civico, ‘L’altralingua’, evento speciale del progetto che riunisce per la prima volta i/le partecipanti ai laboratori di Bellinzona e Berna. Alle 18 al Teatro Sociale, la cerimonia d’apertura; a seguire, ne ‘Il mio Dante preferito’, Claudio Giunta condivide alcuni brani del suo Dante del cuore. Alle 21.15, Chiara Guidi e Francesco Guerri negli ‘Esercizi per voce e violoncello sulla Divina Commedia’.

Sabato alle 10 al Sociale l’incontro con le traduttrici Ilide Carmignani, Natalia Proserpi e Gabriela Stöckli. Alle 12 allo Spazio 5b, l’incontro con Anna Schlossbauer, Lara Ricci e il team di Babel 2026. Dalle 14 al Sociale, con i rispettivi traduttori/traduttrici, Lukas Bärfuss con Margherita Carbonaro, Catherine Lovey con Natalia Proserpi e Alessandro Piperno con Jean-Luc Defromont. Di domenica, sempre al Sociale, dalle 10, ‘Ouvertures italiennes’, incontro sulla poesia italiana e ticinese in traduzione francese con Yari Bernasconi, Maria Borio, Florence Courriol e Anita Rochedy. Alle 14, Claudia Quadri presenta ‘Infanzia e bestiario’ con lo scrittore Dumenic Andry, che l’ha tradotta in romancio. Alle 15.30, Fabio Bacà con la scrittrice Nathalie Bauer, sua traduttrice in francese. Alle 17, ‘Lingue che uniscono o che dividono’, con Ubah Cristina Ali Farah ed Emanuela Anechoum. Alle 18.45, Tenda Babel, ‘Coming Soon!’, spazio dedicato a scrittrici e scrittori ticinesi emergenti con lavori in fieri: quest’anno tocca a Ottavia Bulloni, Marica Iannuzzi e Noemi Nagy.