laR+ Spettacoli

Sventurato il sistema sanitario che ha bisogno di eroine

Nelle sale ‘Heldin. L'ultimo turno’ di Petra Volpe, film sulle condizioni di lavoro di infermiere e infermieri

11 settembre 2025
|

Una paziente si lamenta perché l’antibiotico le è stato portato in ritardo e nessuno è in grado di metterle il catetere venoso al primo tentativo; un malato di cancro aspetta che la dottoressa gli comunichi il risultato degli esami e intanto ci sono terapie da preparare, parenti da contattare e rassicurare mentre un paziente in camera privata cronometra il tempo necessario a portargli una tisana. È un “normale” turno in corsia di Floria, la protagonista del ‘Heldin’ di Petra Volpe, presentato alla Berlinale e finalmente nelle sale della Svizzera italiana (sia in versione originale sia doppiata) con il titolo un po’ didascalico di ‘L’ultimo turno’. La regista e sceneggiatrice ha saputo costruire un thriller tanto intenso e avvincente quanto atipico, visto che la tensione non nasce da crimini efferati o da catastrofi ma dalla quotidianità, per quanto con carenze di organico, di un reparto di chirurgia.

Il film nasce con uno scopo ben definito: raccontare la situazione delle cure infermieristiche in un ricco Paese occidentale. “Volevo fare un film che celebra questa professione” ha spiegato Volpe nelle note di regia; una celebrazione che è anche una denuncia per le condizioni di lavoro di infermieri e infermiere, persone che – ricorda sempre Volpe – “si prendono cura di noi quando siamo malati e anziani, quando siamo estremamente vulnerabili”. Conviene quindi dividere questa recensione in due parti, una più cinematografica e l’altra sulla forza e l’efficacia del messaggio che ha guidato la realizzazione del progetto.

Un impeccabile thriller ospedaliero

Cinematograficamente, il film è impeccabile. Iniziando dal lavoro di sceneggiatura: novanta minuti carichi di tensione e senza cali di ritmo non sono semplici da costruire, partendo da una storia apparentemente esile come il turno di un’infermiera che controlla parametri vitali, prepara pazienti per l’intervento e distribuisce pasti e farmaci; il tutto ambientato nel non-luogo di camere e corridoi di un ospedale. Il film si presenta come una polifonia ben strutturata di micro-storie e micro-drammi, dalla paziente dimessa che ha dimenticato gli occhiali da lettura all’uomo che, in attesa di conoscere l’esito degli esami, si preoccupa più per il suo cane che per la diagnosi di cancro; abbiamo poi una giovane madre che deve decidere se continuare le cure, un uomo originario del Burkina Faso spaventato, più che per la sua salute, per la solitudine, e una figlia che sente il peso della responsabilità di non lasciare solo il padre morente. La camera segue Floria nel labirinto del reparto, mentre le musiche di Emilie Levienaise-Farrouch accentuano l’ansia e la tensione di Floria alle prese con una situazione sempre più difficile da gestire con l’accumularsi di richieste e la determinazione di non dimenticarsi di nessuno. Ma ‘Heldin’ non sarebbe il film che è, senza l’attrice protagonista Leonie Benesch: senza nulla togliere all’ottimo cast di supporto, il film ruota intorno a lei e alla sua notevole performance capace di unire l’intensità emotiva di chi sa che deve mantenere il controllo in una situazione sempre più difficile e stancante, alla sicurezza e naturalezza delle varie procedure mediche, per le quali l’attrice tedesca ha completato un tirocinio in un ospedale.

Floria, eroina di cui non vorremmo aver bisogno

‘Heldin’ non è tuttavia solo un thriller ospedaliero ma, come detto, ha un chiaro messaggio sociale e politico. Lo troviamo indicato esplicitamente nel titolo originale – ‘Heldin’ significa eroina, evidentemente abbandonato nella traduzione italiana per l’ambiguità del termine – e ancora di più nel finale del film, quando mentre Floria torna a casa dopo l’estenuante turno di lavoro leggiamo alcuni numeri impietosi sullo stato delle cure infermieristiche: in Svizzera mancheranno, da qui al 2030, 30mila operatori e operatrici e il 36% di infermiere e infermieri lascia la professione nei primi 4 anni.

Alcune recensioni – soprattutto svizzere, evidentemente l’idea che una fiction possa prendere posizione su temi di attualità non è così scontata – hanno trovato troppo politico e semplicistico il messaggio di ‘Heldin’. Certo, il film è parziale: ci mostra la prospettiva di una infermiera e non tocca aspetti indubbiamente importanti come l’invecchiamento della popolazione e l’organizzazione e il finanziamento dei sistemi sanitari. Ma non è questo il suo compito: ‘Heldin’ non è una analisi socioeconomica o una proposta di riforma; è un film che vuole mostrare, a chi non conosce quella realtà e quel punto di vista, cosa significa essere una infermiera. E ci riesce benissimo.

Se il film ha dei limiti, possiamo trovarli nella sua forma quasi documentaristica che rischia di creare qualche ambiguità nella lettura del film: vediamo la realtà o una sua rappresentazione artistica che risponde non solo a esigenze di verità ma anche drammaturgiche? Se, come in alcuni momenti rischia di accadere, guardiamo ‘Heldin’ come se fosse un documentario, alcune scene rischiano di apparire forzate. La stessa ambiguità la ritroviamo anche nella protagonista che certo vediamo nella sua fragile e fallibile umanità, arrivando più volte vicina al punto di rottura. Ma alla fine prevalgono sempre la sua determinazione e la sua dedizione: Floria è una figura eccezionale e, come appunto suggerisce il titolo originale, eroica. Il rischio è quello di uscire dalla sala restando ancorati all’ammirazione per l’eroina, senza fare quel salto che, parafrasando il Brecht di ‘Vita di Galileo’, potremmo rendere con “sventurato il sistema sanitario che ha bisogno di eroine”.