laR+ L’intervista

Scrivere controcorrente con Fabio Bacà

È alle porte l’uscita di ‘L’era dell’acquario’, ma prima c’è Babel, il 14 settembre a Bellinzona, affiancato dalla traduttrice francese Nathalie Bauer

13 settembre 2025
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Fabio Bacà arriva a Babel da superstite, reduce da un round di editing e un countdown: nove giorni dopo, il calendario prevede il debutto del suo nuovo romanzo, ‘L’era dell’acquario’, sempre per Adelphi, la casa editrice che gli ha dato i natali letterari. Domenica sarà al Festival di letteratura e traduzione, affiancato dalla traduttrice francese Nathalie Bauer, e si affida a ‘Dire quasi la stessa cosa’ di Umberto Eco per orientarsi in un processo che ammette di conoscere poco – nonostante i suoi libri circolino già in più lingue – se non per analogia con quella pratica che gli è invece fin troppo familiare: l’editing.

Chi ha paura dell’editing?

«Immagino che per un traduttore o una traduttrice, sia lo stesso problema: rispettare la voce dell’autore pur dovendo adattarla. Bisogna rendere quello che l’autore vuole dire, ma al tempo stesso sottostare ad alcune imposizioni dovute alle differenze sostanziali tra la lingua di partenza e quella d’arrivo».

La sua di lingua, quella di Bacà, è ben lontana da quella diretta e asciutta, tutta scatto da centometrista, che caratterizza il romanzo moderno. E infatti si definisce «molto scrupoloso»: «Per me una parola non vale l’altra, un campo semantico non vale l’altro». Non stupisce che, quando la falce dell’editing si è abbattuta sul suo primo manoscritto, la reazione immediata sia stata da jumpscare: aprire il file con le correzioni è equivalso a scoprire che la realtà è più brutale dell’immaginazione. «Il primo minuto di editing è stato scioccante. Tutti gli autori pensano di aver prodotto qualcosa di praticamente perfetto, al limite togliamo un paio di virgole», ammette. «È stata un’esperienza formativa, seppur dura: come scrive Stephen King in ‘On Writing’, scrivere è umano, editare è divino».

Un peso massimo

Lui, ossessionato dal linguaggio, si definisce massimalista per imprinting: ha letto troppo Roth e Wallace per potersi sottomettere alla dieta verbale ipocalorica del minimalismo. «Io sono cresciuto nel culto degli scrittori massimalisti. All’inizio si imita sempre, è inevitabile», dice. «Anche a Giotto, all’inizio in bottega fanno copiare i quadri dei maestri. Lo stesso vale per la scrittura». La sua posizione non scivola nel cliché del kill your heroes. I maestri, per lui, non sono idoli da abbattere, ma figure da venerare a distanza di sicurezza. «Leggiamo ciò che amiamo, scriviamo ciò che possiamo», ricorda, parafrasando Borges.

Per uno che è finito nelle gare letterarie più seguite d’Italia – lo Strega e il Campiello – Bacà è sorprendentemente poco competitivo, privo di quel coltello tra i denti che ci si aspetterebbe in un’arena che tutti descrivono come una giungla. «Questo tema della competizione fra scrittori è una cosa che sento abbastanza poco: mi rendo conto che c’è gente che ha molto più successo, vende di più e ha vinto più premi, ma cerco di non farne un problema», ammette. Mettere a confronto libri, dice, è già di per sé qualcosa di strano, come confrontare la miglior zuppa inglese con i migliori spaghetti alla carbonara. «Però mi rendo conto che è un ottimo veicolo di promozione e quindi la competizione appassiona. E ti dico che il momento più emozionante è quello del conto dei voti».

Recensioni positive per libri scomodi

Entrare nel calderone dei premi è come ritrovarsi all’improvviso un riflettore puntato addosso: o l’Io va in iperinflazione, o implode senza preavviso. «Ho un minimo di raziocinio che mi impone di dire che non è un bene per il mio ego che le recensioni siano tutte belle», dice. «Non mi fido di quei libri che piacciono a tutti; se non scrivi un libro un po’ divisivo il mio timore è che tu non abbia detto nulla di veramente scomodo».

È una posizione che sfiora le aporie filosofiche: il desiderio di un bene che, se ottenuto, nega sé stesso. «Quello che voglio io è irrealizzabile», ammette lo scrittore. «Recensioni positive, ma scrivendo libri scomodi».

Si può parlare di violenza o di OnlyFans, come mi anticipa farà nel suo prossimo romanzo, ma per chi passa ogni frase nel setaccio della logica (categoria cui appartengo) certe volte è il dettaglio fuori posto, più che il tema, a rendere il libro scomodo. Un libro deve avere una sua coerenza interna, dice citando Giulio Mozzi, ma a volte conviene inserire anche ciò che non si decifra del tutto, come la misteriosa scomparsa delle scarpe di Barbara in ‘Nova’. Alla mia richiesta di spiegazioni alla Miss Marple appare un po’ esasperato: «Dopo la pubblicazione mi chiama un’amica e mi dice anche lei: “Ma perché Barbara non ha più le scarpe?”. Io posso dare la risposta, ma avrei preferito che il lettore la trovasse da sé, anche se capisco che non è semplice». Ma torchiandolo, decide di parlare. «Intorno ai trent’anni ho attraversato una fase un po’ new age. Stare a piedi nudi significa riconnettersi all’energia primordiale, e ho pensato che in quella scena una madre avesse bisogno di una fonte di energia. Un gesto irrazionale, ma volevo che il lettore si chiedesse: ma che cazzo ha scritto questo?».

Le sue ossessioni

Alcune ossessioni affiorano esplicite, lucide come glassa; altre, più improbabili – come l’idea di raccogliere energia cosmica attraverso i piedi nudi –, si depositano nel romanzo come i livelli di un millefoglie. «Scrivere è affrontare le proprie ossessioni», dice. «La violenza è una delle mie». Ma non nel senso di essere una persona aggressiva, precisa. Anzi: «È un mezzo rozzo e incivile per risolvere i conflitti». Allora perché ci ritorna così spesso? «Perché ce l’abbiamo dentro. Ha una connotazione evoluzionistica da cui non possiamo prescindere: la violenza esiste, è parte di noi. Siamo diventati più civili sotto molti punti di vista, ma nonostante questo le cose vanno come vanno e sono amareggiato da questo, molto sinistro».

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