La condanna a 27 anni dell’ex presidente brasiliano Bolsonaro scuote le coscienze della destra mondiale, espressione del freudiano disagio della civiltà
La condanna a 27 anni dell’ex presidente brasiliano Bolsonaro scuote le sempre vigili coscienze della destra mondiale. In prima fila come spesso gli capita – non si capisce mai bene se in veste di condottiero o scudo umano – l’italiano Matteo Salvini, che esprime solidarietà all’ “amico” Jair, condannato perché “in testa ai sondaggi”. Dichiarazione struggente, nella quale però corre l’obbligo di rilevare due piccole inesattezze. La prima è che Bolsonaro nei sondaggi elettorali brasiliani non compare da tempo, dichiarato ineleggibile dal tribunale oltre due anni fa per alcune storie non proprio simpatiche di abuso di potere e manipolazione dei media. La seconda è che non è stato condannato per eccesso di popolarità e nemmeno perché la folla ha scelto Barabba, ma per aver progettato e tentato di eseguire un colpo di Stato, animando nel 2022 uno spin-off brasiliano dell’assalto trumpiano a Capitol Hill dell’anno prima, con ben poco da invidiare all’originale in termini di comparse ed effetti speciali.
Salvini, che oltre alle felpe ama indossare il trench dell’investigatore privato almeno dai tempi in cui suonava ai citofoni bolognesi chiedendo alla gente “scusi, lei spaccia?”, avrà senz’altro annotato che Bolsonaro si dichiara innocente e perseguitato. Ma anche che alcuni elementi di fatto, come le testimonianze dei militari coinvolti nel golpe, le intercettazioni telefoniche e il rinvenimento nelle carte del suo assistente personale di un piano per assassinare il presidente Lula intitolato non troppo subdolamente “pugnale verde-oro” non hanno esattamente giocato a suo favore in sede di giudizio.
Si dirà che il vittimismo giudiziario a destra non è certo una novità, e che può essere inquadrato per almeno due versi: da una parte le forze politiche montanti ed egemoniche sono sempre state insofferenti ai poteri terzi e in particolare al giudiziario, in qualche misura è stato così anche per la sinistra negli anni Sessanta e Settanta. Dall’altra che questa destra è anzitutto un’espressione del freudiano disagio della civiltà, un fenomeno cioè a suo modo libertario, uno sciopero dalla responsabilità sociale, civile, ambientale, uno sputo alla forza di gravità.
Ma c’è evidentemente qualcosa di più strategico, addirittura sistematico, nella rincorsa – che vediamo riflessa come in un prisma in molte delle notizie di questi giorni – della destra identitaria e sovranista a tutto ciò che possa rappresentare una riserva di capitale vittimario. Si è riflettuto molto su come il vittimismo sia forse l’ultima sorgente di autorevolezza rimasta in una società disgregata e narcisista come la nostra. Nel suo bel saggio ‘Critica della vittima’ del 2014 Daniele Giglioli esaminava la figura della vittima come “eroe del nostro tempo”. Un ruolo che “dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio”. E quindi, come scrisse invece nel 2006 il sociologo Richard Sennett anticipando in pieno la spirale in cui oggi ci troviamo, “il bisogno di legittimare le proprie opinioni in termini di offesa o di sofferenza subita lega sempre più gli uomini alle offese stesse”. Con uno strabismo che purtroppo ci appartiene, questa intuizione l’abbiamo consumata per criticare certi eccessi di wokeness, per censurare molesti ma innocui influencer del dolore che vedevano traumi e microaggressioni ovunque, senza accorgerci che su una montagna di vittimismo capzioso stavano edificando il proprio potere i nuovi padroni del mondo.