laR+ L’intervista

Scrivere di cinema, magnifica ossessione

La scrittura applicata alla cinefilia ha prodotto ‘Un’abitudine inesauribile’, la raccolta degli articoli scritti da Giona A. Nazzaro per il Manifesto

Critico cinematografico, scrittore, dal 2020 Direttore artistico del Locarno Film Festival
(Golay - Locarno Film Festival / Ti-Press)
2 2025
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Il titolo completo ha lunghezze wertmülleriane: ‘Un’abitudine inesauribile. Scrivere di cinema e film per Il Manifesto’ (Kulturjam). Trattasi di raccolta degli articoli scritti per il quotidiano italiano da Giona A. Nazzaro, direttore artistico del Locarno Film Festival e ancor prima critico cinematografico. L’arco di tempo è quello che va dal 2013 di ‘Phil Spector’ di David Mamet al 2025 di Val Kilmer, oggetto di necrologio. In mezzo, storie di cinema suddivise nelle sezioni Musica, Maestri del cinema, Recensioni e, appunto, Necrologi. ‘Un’abitudine inesauribile’ riunisce scritti di natura diversa ma con un elemento in comune: l’amore per il cinema, “testardo, curioso, fazioso, partigiano, sempre disposto a stupirsi o a ricredersi”. Parole di Nazzaro, cui seguono queste altre...

Giona A. Nazzaro, permetta la citazione: ‘I critici musicali sono persone che non sanno scrivere, che intervistano persone che non sanno parlare, per un pubblico che non sa leggere’. Frank Zappa lo avrebbe detto anche dei critici cinematografici?

Come critico cinematografico mi sento di avere sempre avuto un vantaggio: non ho mai voluto fare il regista. Ho sempre saputo che sarebbe servito un tipo di ossessione continua e verticale, che non era la mia. Mi riferisco ai registi che amo, perché è possibile fare film anche senza essere ossessionati, eventualità questa che riguarda i registi che amo di meno. Per fare un film si deve avere in testa un modello alto, che vada da Scorsese a John Ford a Kurosawa e così via. Diversamente, nemmeno vale la pena provarci.

Cito dalla sua introduzione: ‘La critica cinematografica dei quotidiani è una cosa, il giornalismo cinematografico e la saggistica accademica un’altra’…

Il giornalismo cinematografico rende conto di quel che accade nell’industria del cinema, di chi fa cosa, gli incassi, la casa di produzione che assorbe l’altra. Quella del critico cinematografico è invece una forma letteraria ben precisa. È uscito da poco un libro di Ennio Flaiano intitolato ‘Chiuso per noia’, che raccoglie le sue critiche cinematografiche: ecco, senza toccare modelli così alti, in Italia abbiamo avuto grandi nomi della scrittura cinematografica come Tullio Kezich, Giovanni Buttavafa, Lietta Tornabuoni, Giovanni Grazzini, Alberto Farassino, Alessandra Levantesi, Maurizio Porro, Roberto Pugliese, Valerio Caprara, quest’ultimo un mio modello individuale. Sono critici cinematografici e non giornalisti cinematografici. Un tempo si leggeva Caprara non tanto per essere d’accordo o meno con il suo pensiero, quanto per la forma della sua scrittura che era espressione della sua cinefilia. Il pensare ora a nomi come il suo riconduce a uno stile riconoscibile. Oggi che la scrittura è diventata secondaria, dei critici che mantengono uno stile e una scrittura critica interessanti posso citare Adriano De Grandis.

E in tempi di scrittura diventata secondaria, le recensioni cinematografiche possono ancora cambiare le sorti di un film?

Penso di sì. Un tempo ci si appassionava a certi registi perché un secondo regista dichiarava che il film del primo era bello. Ricordo lo shock che provocò Jacques Rivette quando disse che aveva trovato ‘Showgirls’ di Paul Verhoeven, massacrato dalla critica, un grande film, fortificando il giudizio di noi giovani critici. In quegli anni ci piaceva Carpenter e a Venezia un giovanissimo Olivier Assayas mi disse di come gli fosse venuta voglia di far cinema dopo aver scoperto ‘Distretto 13’ di John Carpenter, del quale apprezzava la qualità molto ‘americana’ della violenza. João Botelho mi disse che Jean-Marie Straub vedeva in John Wayne uno dei più grandi attori sempre. Questa non è critica cinematografica, ma onde d’urto che lasciano segni profondi. Da quando ho iniziato, ho sempre scritto con l’arroganza idealistica (spero perdonabile) di chi avrebbe cambiato il destino non solo del film ma anche del pubblico. In questo rapporto ossessivo, la scrittura era un modo per appropriarsi di qualcosa da fare proprio e poi condividere, dando vita a una sorta di traduzione testuale. Ci si pensava, insomma, un po’ come la versione degenerata dei cinefigli di Serge Daney.

Beata arroganza. Di un film italiano lei scrisse: “È un micidiale assortimento di banalità pseudo-sociologiche annegate nelle insopportabili canzoni dei Modà”. Penso ai portali di musica le cui recensioni non scendono mai sotto la sufficienza. I critici musicali oggi non fanno più paura…

In un sistema di comunicazione nel quale la carta stampata governava ancora pressoché indisturbata e le testate si differenziavano per qualità, una volta aveva un senso stroncare. Parlo sovente di Tullio Kezich, persona squisita, accusato ingiustamente da noi giovani critici di essere un conservatore. Mi diede invece una lezione di onestà intellettuale quando uscì ‘Terremoto nel Bronx’ di Jackie Chan e citò un mio scritto per dire che il film non era granché, ma il protagonista era interessante. Eppure tempo prima lo avevo attaccato perché aveva sminuito i tagli al film di Rivette su Giovanna D’Arco, per molti e per me un oltraggio. Mi resi conto in quel caso che persone come lui, Alberto Farassino, Giovanni Buttafava, Vieri Razzini erano gentiluomini che non solo sapevano scrivere, ma avevano anche una percezione delle cose più articolata di noi giovani degenerati che prendevamo d’assalto la diligenza. Dico anche che a volte era giusto assaltare la diligenza: ricordo il dibattito che si aprì sul ‘Siciliano’ di Michael Cimino, tacciato di revisionismo di fronte al ‘Salvatore Giuliano’ di Francesco Rosi. Oggi quel dibattito mi manca, ci si divideva su forme, contenuti, idee, e una stroncatura risuonava con una sua gravità. Oggi la stroncatura, a livello merceologico e comunicativo, al film fa quasi più gioco: “Guarda, mi hanno stroncato!”.

Altre stroncature costruttive?

David Lynch, oggi giustamente celebrato. Ricordo che Lino Micciché trattò con sufficienza ‘Fuoco cammina con me’, scioccando noialtri ma costringendoci a essere più profondi. Ricordo che a Cineforum, curando uno speciale su Lynch, nacque una discussione sul regista, ricordo il ‘processo sovietico’ che la redazione di Cinemasessanta mi fece per l’avere io scritto cose ideologicamente non proprio corrette nel difendere un film di Spielberg, o quando su Filmcritica mi fecero un altro processo, per ‘incoerenza estetica’. Vissi quelle cose con angoscia, ma sono contento di averle vissute, un po’ perché sono affezionato ai miei traumi e un po’ perché mi sono servite.

In nome della ‘natura eterogenea’ dei materiali del libro, nella sezione ‘Musica’ Nino D’Angelo viene prima di Lemmy dei Mötorhead e Paul Stanley dei Kiss e dopo gli Slayer. A parte forse l’attinenza amorosa con ‘I Was Made For Lovin’ You’, cosa unisce ‘Un jeans e una maglietta’ al metal?

Nino D’Angelo è il Luke Skywalker del Vesuvio. Lo adoro, è una figura chiave perché quando si parla di cultura popolare ci si dimentica che quando essa c’è, viene sempre negletta, quasi per paura di affrontarla. Anche se nato a Zurigo, sono del Sud Italia, dove è molto facile farsi un’idea sbagliata di persone come Nino, artista che ho recuperato soprattutto attraverso il cinema e del quale mi occupai per primo di un excursus sui suoi film. Credo che oggi Nino D’Angelo sia l’incarnazione di un Paese, di una lingua, il napoletano, e di un sentire proletario e sottoproletario che non esiste più. Per me Nino e Lemmy sono eroi di un’internazionale proletaria universale: Lemmy parla a tutti perché rappresenta quello che è, Nino D’Angelo parla ai napoletani del mondo, da quelli ricchi a quelli poveri, perché rappresenta quello che è, così come Bruce Lee parla a tutti, dal Sudamerica alle Filippine, perché rappresenta l’istinto di riscatto, lo stesso di Lemmy e Nino.

Nei due pezzi su Nino D’Angelo i rimandi a Pier Paolo Pasolini e Marco Ferreri paiono quasi provocazioni. La mia domanda è ovviamente provocatoria.

Marco Ferreri aveva inserito una canzone di Nino D’Angelo in ‘Diario di un vizio’, uno dei suoi film meno compresi. Non posso sapere cosa Pasolini avrebbe detto di Nino, ma sono sicuro che avrebbe guardato con interesse a un’espressione popolare, popolana, così forte e originale. Quando vivevo al sud, Nino era ovunque ed era inevitabile provare a non prestargli attenzione, sbagliando. L’ho riscoperto a Roma, in un centro sociale occupato in cui i Bisca suonarono un pezzo nel quale avevano cantato con Nino, mettendo insieme quasi godardianamente realtà molto distanti tra loro. Quella collaborazione mi fece capire che ero stato mosso da miseri pregiudizi e i pregiudizi non portano mai lontano.

Il libro si chiude con i necrologi, che hanno regole precise come la commemorazione. Per questa attingo da laRegione, un ricordo di Marcello Mastroianni da lei accettato a patto di poter scrivere ‘un racconto umano’…

Considero il necrologio, o ‘coccodrillo’, un modo per permettere alle persone di restare in vita. Quando è venuto meno Tomas Milian, per esempio, mi è passata tutta la vita davanti: un attore che ha lavorato con Antonioni, Visconti, Bolognini, e poi dimenticato. Sono persone che attraversano intere esistenze che non sono soltanto le loro. Quando è morto Run Run Shaw degli Shaw Brothers ci si è resi conto dell’universo retrostante, Radley Metzger era considerato solo un regista di film pornografici, ma in vita ha fatto tanto proprio perché ha girato quel tipo di film. Amo poi i registi non benedetti dal talento, diversi dai registi medi e mai interessanti, che hanno amato il cinema come nessun altro, che si sono sbattuti per farlo senza emergere come avrebbero voluto, ma con eroismo. Registi come Jess Franco, non bravi in senso stretto, registi che magari, un film brutto dopo l’altro, hanno eretto un monumento alla loro passione. A volte un necrologio è un suggello a un’opera che è mancata, ma proprio perché mancata e mancante, finisce per diventare vitale, fondamentale.

Nell’anno della morte di Gene Hackman mi piace segnalare, tra le sue recensioni, ‘La conversazione’ di Coppola, ‘un monito al quale tornare ogni volta che la realtà rischia di sfuggirci di mano’. L’altra è quella del terzo capitolo di ‘The Purge’, altro film premonitore…

Quanto a ‘The Purge’, mi pare sia stato superato da ciò che stiamo vivendo. Il motivo per il quale nel 2022 volli premiare a Locarno Jason Blum della Blumhouse (produttore di ‘The Purge’, ndr) risiedeva nella mia convinzione che i suoi film horror, almeno fino a un certo periodo, fossero presaghi di sciagure reali. Quanto a ‘La conversazione’, rivisto oggi mi fa venire i brividi. Nella cultura americana sono due le cose inquietantemente profetiche: quel film – ossia lo spionaggio inteso come pratica a tutti i livelli, la paranoia, l’isolamento, il complotto – e il pamphlet di William S. Burroughs ‘La rivoluzione elettronica’, nel quale, in epoca analogica, si scriveva di come manipolare la comunicazione. E in questo senso, Gene Hackman nella ‘Conversazione’ vede cadere a pezzi il suo mondo di spia professionale, retta da un codice non dico deontologico, ma almeno ideologico, ovvero l’Occidente contro gli altri. Il film va ben oltre lo scandalo del Watergate che lo ha originato e non è lontano da ‘The Purge’ il cui assunto – una notte all’anno in cui ogni tipo di violenza è permessa e resta impunita – pare una trovata del piffero e invece ha un corrispettivo in quel che dice Donald Trump, e cioè che la colpa non è delle pistole, ma di chi non le sa usare.

La domanda è tardiva: qual è stata la sua prima recensione?

La prima recensione l’avevo scritta adottando tutti i manierismi critici degli amici e me l’hanno bocciata. Per fortuna il direttore di Cineforum, Sandro Zambetti, una bravissima persona nonostante i sigari maleodoranti e il carattere bergamasco burberissimo, invece di consigliarmi di darmi all’ippica mi disse: “Leggi Ermanno Comuzio, riscrivi il pezzo e rimandamelo”. Da vero pedagogo, Zambetti mi faceva scrivere di film che non amavo particolarmente, perché sapeva che avrebbero richiesto uno sforzo in più. Dunque la prima recensione scritta per una rivista – Cinemasessanta – chiedendo di poterne scrivere fu quella di un film che all’epoca si chiamava ‘Cani da rapina’, ossia ‘Le iene’ di Tarantino, ma in casa non ho più né la rivista, né il testo battuto a macchina. Ricordo che finiva con questa frasetta: “Se il regista manterrà una sola parte delle promesse contenute in questo esordio interessante, sentiremo ancora parlare di lui!” (ride, ndr).

Lanciamo allora l’appello da queste pagine…

Magari. Qualcuno potrebbe ritrovarlo tra le proprie carte e farne una copia. Sarebbe un gesto nobile.