laR+ L’intervista

Alessandro Bergonzoni, andiamo a fare la rievoluzione

Invita a passare alla sovrumanità, ama insognare. Il 10 ottobre a Sconfinare con un nuovo concetto di pace: ‘Si chiama ra, inteso come fine della guerra’.

Alle 20.30 in Piazza del Sole con ‘Arrivano i Dunque (Avvannotti, sole Blu e la storia della giovane Saracinesca)’
(Chiara Lucarelli)
3 ottobre 2025
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“Avviso. Attenzione: esercitazione di immedesimazione col popolo di Gaza e con tutte le guerre, anche quelle che non ci fanno vedere. Come esistono le esercitazioni antincendio, così ora più che mai è necessario poeticamente, spiritualmente, antropologicamente, civilmente esercitarci a sentire all’unisono. Restate dove siete, non correte nessun pericolo. Voi”. L’autore di questa installazione sonora ne caldeggiava la diffusione in tutta Bologna, ma l’amministrazione comunale si è preoccupata che qualcuno prendesse davvero la via dei rifugi antiatomici. Rilanciata dalle agenzie, anche la sola diffusione nelle aule della Aldini Valeriani, scuola tecnico professionale del capoluogo emiliano, qualcosa ha fatto, visto che siamo qui a parlarne. Era giugno: “Me l’ha chiesta anche un bagnino”, diceva Alessandro Bergonzoni, seduto in aula ad ascoltare la propria voce tra sirene di guerra che per ora suonano solo in altre parti del mondo. Impegnato in molte delle cause umanitarie degli ultimi anni, lo avevamo incontrato nei giorni del suo appoggio alla Sea Watch che erano anche i giorni di ‘Trascendi e sali’, spettacolo nel quale manifestava l’urgenza di un nuovo Rinascimento, nella consueta alternanza tra divertimento e prese di coscienza, insieme a fiumi di neologismi per i quali da tempo servirebbe un’appendice ai vocabolari, o un vocabolario a sé (uno Zaniconi, o un Bergonzelli).

L’urgenza del 2019, esposta allora al Teatro Sociale, è diventata quella di una ‘rievoluzione’, parte di quanto si dice in ‘Arrivano i Dunque (Avvannotti, sole Blu e la storia della giovane Saracinesca)’, il nuovo spettacolo che Bellinzona vedrà venerdì prossimo, 10 ottobre, alle 20.30 in Piazza del Sole per lo Sconfinare Festival 2025 (dal 9 al 12 ottobre). Spiegato con le note dell’autore, ‘Arrivano i Dunque’ è “un’asta dei pensieri” in cui Bergonzoni cerca “il miglior (s)offerente per mettere all’incanto il verso delle cose: magari d’uccello o di poeta”, partendo “dallo sproposito, per la rifusa, con la congiuntivite” per varcare “il fraintendere, fino all’unità dismisura, tra arte e sorte, fiamminghi e piromani, van Gogh e Bangkok, bene e Mahler, sangue fuori mano e stigmate, stigmate e astigmatici, Dalì fino Allah”. Detto con parole del festival, un viaggio surreale e giocoso attraverso i confini del linguaggio e della percezione, e stante il nostro corpo – tema dell’edizione – “confine vivente tra ciò che siamo e ciò che gli altri percepiscono”, il teatro di Bergonzoni “attraversa, dissolve e ricompone i limiti della corporeità, della lingua e delle idee”.

Alessandro Bergonzoni, parlare con lei mi rimanda sempre alla frase di un vecchio film, che dice più o meno ‘adoro essere ridotto a uno stereotipo culturale’, ma anche a un più masochistico e meno rassegnato ‘fammi male’, o ‘fammi bene’…

Il problema culturale, il problema del bene e del male è ormai insito, allora mi piacerebbe essere considerato insito, più che altro. Perché le persone dividono tutto in ministeri, come si fa in Italia, il Ministero della Salute, dell’Istruzione, della Cultura. Io credo invece che tutto questo sia ormai unito. Anni fa parlavo di ‘voto di vastità’, perché il tema è quello di non dividere, di non separare: unisci e impara e non dividi et impera. Il mio lavoro è dunque quello di intellettuale? Mi sembra una parola desueta. Attore? Non sono un attore e non lo sarò mai, non a caso fui bocciato all’Accademia antoniana. Artista? Con la ‘a’ minuscola può essere, perché faccio mostre, installazioni, performance. Mi ritengo un non accontentato, un impaziente. Alle volte sono anche paziente nel senso che mi piace curare più che farmi curare, mi piace sfamare, marciare, parlare di anima e di sacro ma non di religione, parlare di spiritualità, e in questo preciso momento storico tradurrei tutto con queste parole: non credo nella politica in quanto economia, geopolitica, affari, colonialismo, m’interessa invece il civile, il civico, e non solo il numero della mia strada. Devo dire che il pubblico, su questi temi, ci arriva, sente ed è sempre preoccupato. Ecco, io sono uno che preoccupa.

Una curiosità da rotocalco: il Bergonzoni bambino si metteva in piedi sulla sedia e recitava per la famiglia?

Niente di tutto questo. Ero malinconico, piagnone, un sottocute, non ero quello che in classe vociava, scherzava e veniva buttato fuori. A casa ero devastante e devastato, i miei genitori hanno sempre cercato di tranquillizzarmi. All’età di sedici anni, prima della legge 180, ho anche frequentato quelli che un tempo si chiamavano manicomi perché un compagno di scuola mi ci aveva portato per via del fratello che vi era ricoverato. Lì dentro ho cominciato a vedere come la surrealtà, la metafisica, la fantasia e la visione possono anche, da ragazzi, servire a tradurre la realtà. Non sono mai stato né satirico né ironico, non mi piace il teatro brillante, ma anche se non sono un comico continua a interessarmi la risata di pancia, quella di fegato, di pancreas, di milza.

Il fatto che lei non si definisca satirico e ironico spiegherebbe come non è lei a giocare con le parole, così si dice, ma il contrario…

Il capovolgimento è interessante. Quelli che mi dicono che sono un giocatore di parole e calembour mi feriscono. Sono davvero le parole che giocano con noi, perché non ascoltiamo il loro grido, il loro verso, e per ‘verso’ intendo il verso poetico: “Ma ci ascoltate o no?”. Sono le parole che giocano con me, io non sono un autore, sono un autorizzato, non sono uno scrittore, sono uno scritturato, tiro su l’antenna, capto quel che arriva, me ne beo, ne godo e poi lo passo al pubblico. E spero che il palleggio sia continuo, perché finito lo spettacolo ne comincia un altro.

Il corpo è il tema dell’edizione 2025 di Sconfinare. Si preoccupa mai di quale fine potrebbe fare il suo con l’AI, non teme che un BergonzoniGPT vi si sostituisca?

Per quanto riguarda il mio mestiere, le preoccupazioni sono pari a zero, ma in campo artistico credo che la cosa possa valere anche per gli altri. Nessuna intelligenza artificiale mai dipingerà Guernica, nessuna farà mai l’Ultima cena, anche se può riprodurle. L’intelligenza artificiale è utile tecnologicamente, nella medicina per esempio, e in questo campo avrò presto degli incontri. Trovo che questa malattia dell’intelligenza artificiale sia esagerata: l’AI farà il suo percorso, la sua strada. AI è anche ‘ahi ahi’, è “non so”, è “stiamo attenti”, ma non c’è pregiudizio e nemmeno terrore. Mi ricorda tanto il tema dei social, “va bene”, “è utile”, “possiamo parlarci in dieci”, “ci si può sentire in Giappone come a Roma”, ma tutto il resto di negativo che essi producono è soltanto una questione antropologica, filosofica.

Alcune biografie dicono: ‘Alessandro Bergonzoni, autore e artista pacifista’. In questi tempi di cinismo dilagante non trova che quel ‘pacifista’ suoni un po’ demodé?

La pace è diventata qualcosa di infantile, banale, una parola da merenda a scuola: “Facciamo la pace?”. La guerra invece è diventata sexy, maschile, erotica, quasi ammissibile. Della parola ‘pacifista’ parlo nello spettacolo. Io non sono quello che mette dei fiori nei nostri cannoni ma nemmeno nei cannoni ci voglio mettere i figli degli altri e i miei, e quindi ho coniato un nuovo vocabolo con il quale sostituire la parola ‘pace’: si chiama ‘ra’, intesa come fine della guerra. ‘Ra’: voglio la ‘ra’, dobbiamo vivere in ‘ra’, andiamo a manifestare per la ‘ra’, perché va mutato il senso di questa parola. Speravo che non succedesse, ma è nell’aria: i pacifisti, chiamati anche ‘pacifinti’, vengono descritti come una genia di pretuncoli, di religiosi, di ingenui. Credo invece che Aldo Capitini e Alexander Langer ci abbiano insegnato come marciare non solo nella piazza esterna, ma anche in quella interiore. Anche quando il pacifismo assume forme gandhiane come quelle della Flotilla mercoledì sera, tutti con le mani in alto, senza armi, senza affronti.

Se ne può discutere, ma una cosa è certa: la gente si è accorta di quel che non si accorgeva, di quel che sentiva ma non ascoltava, di quel che guardava ma non vedeva. Mi muovo da due anni in queste piazze e pare sia scoppiato tutto ieri. Dico grazie a questi ragazzi che stanno rischiando, che sono agenti, non di polizia ma nel senso di persone che agiscono, come sempre si dovrebbe fare, scrivendo, meditando, pregando, facendo teatro, forme che ora sono richieste a tutti, non solo agli attivisti, agli artisti e agli intellettuali, perché i politici non risolvono nulla. Quando sento qualcuno dire “torniamo umani” mi viene da correggerlo e dire “questo è già umano”, è disumano, subumano affamare, uccidere 65mila persone. Si tratta dunque di passare alla sovrumanità, che non è superomismo, si tratta di diventare cambiatori di dimensione, di frequenze. È un po’ tardi, ma oggi la gente manifesta, porta in strada una performance artistica della coscienza. Anche le suore di clausura stanno facendo qualcosa in questo momento, il silenzio, il collegamento con il proprio dio è una forma di rievoluzione, un’altra delle parole dello spettacolo, rievoluzione e non rivoluzione, quindi non distruggere, non manomettere, una diversa evoluzione. Perché quando spari a una bambina dentro a un’auto, in mezzo ai cadaveri dei suoi parenti, l’umanità è finita.

‘Arrivano i Dunque’ è teatro civile?

Non è uno spettacolo civile, sociale, di denuncia, è uno spettacolo nel quale c’è anche una chiamata, una vocazione, una invocazione, un desiderio, un bisogno, che è anche un doppio sogno. In questo spettacolo mi piace insognare, raccontare quello che è anche il sogno. ‘Gioco’ su questo piano, su questo tavolo e altri tavoli, anche sul tavolo delle trattative. A costruire il mio sono stato aiutato Emergency, che ha fatto arrivare dal Kurdistan quattro gambe artificiali che in scena stanno al posto delle gambe del tavolo. Lo sto portando nei musei, nei festival, per poter raccontare che il tavolo delle trattative false, economiche, sta su per le persone che hanno perso le gambe.

Le contesto di avere messo a rischio la Flotilla per questa lezione di uguaglianza, che è sua, per la quale se togliessimo il mare alla Terra saremmo tutti confinanti…

Ho sostituito la ‘linea di confine’ con ‘linea di non fine’. Trasportando il concetto al corpo: muore? No, finisce, ma inizia quello di un altro. Sotto il mare c’è un collegamento, la Terra è tutta sullo stesso asse, siamo tutti nella stessa casa e non lo devono dire solo il cardinal Zuppi o il Papa, lo deve dire il cittadino. Abbiamo dimenticato i morti annegati in questo cimitero del Mediterraneo, come è stato definito, le cinquecento persone andate a fondo perché alcune barche spingevano quella imbarcazione verso acque di altri. È successo tra la Grecia e l’Italia e se ne è parlato anche poco. È incredibile come si accetti l’incredibilità.

Hanno accusato quelli della Flotilla di protagonismo, lo fecero anche con quelli della Sea Watch, per la quale lei si spese…

Ho iniziato proprio con Sea Watch, sono partito insieme a pochi altri muovendo, cercando di scuotere le persone. Protagonismo? Allora anche Roberto Bolle quando danza fa del protagonismo, anche chi scrive un libro! In azioni di questo tipo l’esposizione è certa, l’artista non espone solo l’opera ma anche sé stesso. Quanto all’egocentrismo, lo vedo ogni giorno in televisione, ci sono politici seri e altri che sono lì per esibirsi. Ma io credo che il pubblico sia in grado di distinguere…

La gente scesa in strada mercoledì notte a Roma è parsa in grado di distinguere…

La gente distingue ed è un segno pacifico. Nessuno ha gridato “sono un pacifista”, oltre che a colpi di slogan c’era chi marciava in silenzio, c’erano padri e figli, nonni e nipoti, e tanti senza nemmeno una bandiera se non quella bianca, che non è un segno di resa, ma serve a dire “abbiamo un altro modo di vedere la vita”. La sovrumanità sta in questo.

Per il Presidente del Consiglio italiano invece la gente scende in piazza non per i diritti umani ma ‘per fare il weekend lungo’...

Non l’avremmo voluto fare il weekend lungo, non vorrei uscire di casa e vedere una manifestazione ogni giorno, ma mi fa piacere vederla perché vuol dire che non accettiamo più che le persone mutilino, affamino, assetino e uccidano, qualunque sia la guerra. Ammetto che tutto questo è sempre esistito, ma siamo alla fine di un’era. Come dico nello spettacolo, “fine di un’era, inizio di un è”, comincia un nuovo è, un essere!, un sii!, diventa!, inventa!, scopri!, e lo possono fare tutti, non solo noi sul palco, chi va in tv o chi s’illude attraverso i social di essere protagonista. Ci vogliono i corpi, le coscienze. È evidente che è in atto una rivolta pacifica e se, tolti i quattro cretini che rompono le cose, la politica non la capisce, se la contrasta e ne fa propaganda, dimostra di non avere capito che quelli a Gaza, in Sudan, in Siria, in Cisgiordania sono nostri figli, che noi siamo loro genitori. Nello spettacolo mi chiedo quanti ragazzi vanno al macero e noi non li abbiamo ancora letti. Pensiamoci, prima di voltare pagina.