
Viaggio a ritroso nel capoluogo toscano, una città che cambia, lasciando a volte indispettiti i suoi frequentatori e amanti. Ieri e oggi
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Viaggio a ritroso nel capoluogo toscano, una fra le culle della letteratura italiana. Una città che cambia, si trasforma e si cristallizza per poi tramutarsi nuovamente, lasciando non di rado indispettiti i suoi assidui frequentatori (e amanti), di ieri e di oggi.
Che trascorressi una buona fetta della mia vita a Firenze era forse scritto nelle stelle. Una città misteriosa che si era affacciata all’orizzonte del bambino che ero tanti anni fa, ascoltando alla radio le canzoni di Odoardo Spadaro e di Alberto Rabagliati, in una lingua che mi suonava strana; si parlava di Cascine (anzi: ’ascine) frequentate da un Messer Aprile rubacuori e di un bacione da portare a Firenze e a tutti i fiorentini. Più tardi il padre di un compagno di ginnasio ci portò una volta a Lecco, squadra di calcio che allora giocava in Serie A, per assistere a una partita contro la Fiorentina di Hamrin; per me un colpo di fulmine vedere quelle maglie viola stagliarsi sul verde del terreno di gioco, in tempi di televisione in bianco e nero. Al liceo poi gli incontri con Dante, Petrarca, Boccaccio, gli artisti e i geni rinascimentali; infine direttamente con la città, scoperta da turista curioso durante vacanze pasquali: le strade, i monumenti celebri, i musei, le trattorie popolari del centro storico. Lì la decisione, presa col cuore e con la testa: voglio venire a studiare e a vivere in questa città!
E così è stato per otto anni; anni fruttuosi, vivaci, ricchi di esperienze e incontri che mi hanno accompagnato fino ad oggi. È un po’ la mia città, seppur cambiata rispetto agli anni 60-70 e nei confronti della quale provo oggi sentimenti contrastanti. Una città che mi sono reso conto di amare quel 4 novembre del 1966, l’anno della grande alluvione, che ha lasciato dietro di sé una città ferita, offesa nella sua dignità, che richiedeva aiuto per risollevarsi dal fango. Evento che ha determinato una svolta nella vita di Firenze con trasformazioni del tessuto sociale, spazzando via le botteghe artigianali e i vecchi abitanti del centro (e con loro la vita) per far posto a boutique e pizzerie ad uso del turismo di massa che ha colonizzato lo spazio cittadino 365 giorni all’anno. L’ultima volta che ci sono stato ho fatto fatica a ritrovarmi e per un momento (uno solo) l’ho detestata anch’io Firenze, sentendomi, nel mio piccolo, tradito. Naturalmente non quanto dice di esserlo stato Dante.
Il tema è dunque quello di una Firenze traditrice; il cambiamento insomma, che ognuno affronta con sentimenti diversi.
Firenze (Fiorenza) se ne stava in pace, moderata nei suoi bisogni e onesta nei comportamenti (si stava in pace, sobria e pudica), nella prima cerchia delle sue mura; le donne non portavano collane preziose (catenelle), né corone in capo, né gonne ornate di fregi e ricamate, né cinture che fossero più appariscenti della persona che le indossava; la nascita di una figlia non faceva ancora paura al padre per il fatto di doverla far sposare ancora in giovane età o con una dote eccessiva. Le case non erano vuote di figli (non avea case di famiglie vòte), non vi era ancora arrivata la lussuria (non v’era giunto ancor Sardanapalo a mostrar ciò che ’n camera si puote).
Nella Divina Commedia al Canto XV del Paradiso, così Dante fa dire al suo avo Cacciaguida sulla decadenza di Firenze; un tema ricorrente in tutto il poema. Le cause di questo degrado le spiega nel canto successivo, ed è forse lì che si trova un argomento che ha fatto dire a un ministro dell’attuale Governo italiano che Dante è ‘autore di destra’; in effetti Cacciaguida ce l’ha con gli immigrati dalle campagne (Sempre la confusion de le persone principio fu del mal de la cittade/... sostener lo puzzo del villan), con i cambiavalute e la classe mercantile (i sùbiti guadagni/... tal fatto è fiorentino e cambia e merca) che corrompe la morale dei cittadini; ma che farà la fortuna di Firenze, bisogna pur dire.
Il secolo scorso c’è stato chi è andato oltre il Poeta nel criticare Firenze, anche se da tutt’altra prospettiva. Parto da un ritrovo storico per gli intellettuali fiorentini negli anni a cavallo tra le due guerre: Le Giubbe rosse, oggi ‘Ristorante, Light lunch, Tea room e American breakfast’ (tanto per tenere il passo coi tempi), sito nella centralissima Piazza della Repubblica, di fronte ad altri celebri ritrovi come il Paszkowski e soprattutto il settecentesco Caffè Gilli, che si rifà a un cognome grigionese da pronunciare rigorosamente con la G dura. Il nome Giubbe rosse deriva dal colore della livrea dei camerieri adottata nel 1910, quando il caffè venne ristrutturato in stile Liberty e arredato con i caratteristici divani foderati di velluto rosso. Tre anni dopo il locale fu acquistato dal sor Andrea (Andrea Juon), pure lui svizzero.
Lì si riunivano, per leggere e discutere, letterati, pittori e critici tra i più famosi dell’epoca: Giovanni Papini fondatore della rivista Lacerba, Giuseppe Prezzolini direttore de La voce; ai quali si unirono poi i futuristi capeggiati da Marinetti. In un testo storico curato dagli attuali proprietari delle Giubbe rosse, si legge come l’ingresso sulla scena di quelle teste calde alla vigilia della Prima guerra mondiale, provocò risse che indussero molti intellettuali a lasciare il caffè per trasferirsi in quelli di fronte.
Dopo la guerra, la fama di fucina di idee attirò però altri personaggi: Montale, Gadda, Saba, Vittorini e il pittore Primo Conti; vennero fondate nuove riviste letterarie quali Solaria nel 1926 e Frontespizio, creata nel 1929 da Piero Bargellini, sindaco di Firenze ai tempi dell’alluvione. Qualche anno dopo il regime fascista però si insospettì e promulgò una diffida di frequentare il locale per Montale, Bigongiari, Bonsanti e Vittorini. Fu la fine di un’epoca feconda.
Ho ricordato in precedenza il controverso ed eclettico Giovanni Papini, che a proposito di rifiuto del presente aveva idee chiare, ovviamente in chiave futurista. In un manifesto del 1913 intitolato Contro Firenze, spargeva a piene mani parole velenose sulla città e i suoi abitanti, aizzandoli a ribaltare il mondo vecchio per farne uno daccapo; seppure con riferimenti al glorioso passato di Firenze.
Ne riporto qualche passo (sintetizzando il testo) e lasciando al lettore il giudizio:
Firenze culla delle arti, Atene d’Italia, focolare della Rinascenza, madre feconda d’ingegni? Se Firenze è stata culla è ora una delle tombe più verminose dell’arte; di Atene non vi restano che le nottole; se avete dato vita agli ingegni li avete sempre perseguitati e scacciati; il vostro rinascimento fu, per molti riguardi, una seconda morte. Perchè Firenze smetta di essere un gran museo ad uso dei forestieri e diventi un tumultuoso bivacco di ingegni è necessario che i fiorentini rinneghino loro stessi. Bisogna avere il coraggio di urlare che noi viviamo alle spalle dei morti. Siamo bidelli di sale mortuarie e servitori di vagabondi esotici. Se girate le migliori strade di questa città non vedete altro che alberghi, pensioni, case di camere ammobiliate, caffè per stranieri, negozi di antiquari e rigattieri, botteghe di statue e statuine. Se avremo la forza di strafotterci dei barbari che invadono le nostre case e di tutte le scimmie transalpine e transatlantiche che sbarcano alla stazione di Santa Maria Novella; e la forza di buttare in Arno i professori, i portieri di museo, gli eruditi, i dantisti, i cruscanti, e gli altri schifosi passatisti che qui hanno il loro nido, Firenze ritornerà, come nel quattro e cinquecento ad essere il centro più attivo dell’intelligenza italiana.