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Il peggior modo d’insegnare educazione sessuale: bellinzonese condannato

Ha fatto spogliare la figlia della sua compagna indicandole nel dettaglio le parti intime per renderla attenta sul rischio di rimanere incinta

(Ti-Press)
24 luglio 2025
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Il peggior modo d’insegnare educazione sessuale a una ragazzina di 13 anni: farla spogliare, indurla ad aprire le gambe e indicarle i dettagli delle parti intime quale monito di fronte al rischio di rimanere incinta. Per questo episodio, commesso nelle Filippine ai danni della figlia della sua compagna, un 73enne del Bellinzonese è stato condannato oggi dal giudice Paolo Bordoli a 14 mesi di detenzione sospesi per due anni di prova, con l’obbligo di proseguire un percorso psicoterapeutico già avviato durante l’inchiesta ma poi interrotto; più l’interdizione a vita da attività con minori. Confermato così l’atto d’accusa della procuratrice pubblica Chiara Buzzi che di mesi ne aveva chiesti 20. Oltre a quell’unico episodio (atti sessuali con fanciulli il reato) il pensionato è stato riconosciuto colpevole anche di pornografia ripetuta per aver scaricato e detenuto 7’200 immagini (con la prescrizione si sono ridotte a 4’680) rappresentanti atti sessuali con minorenni e animali, di cui cinque condivise su una piattaforma accessibile ad altri utenti.

‘Nessuna didattica’

Proprietario di una casa nelle Filippine, l’imputato convive con una ticinese e dal 2007 ha una relazione con una filippina la cui figlia ha oggi vent’anni. Entrambe vivono nella sua casa e lui versa loro 500 franchi al mese per la scolarizzazione. Una sua visita era sfociata nel maldestro tentativo di impartire una lezione di educazione sessuale all’adolescente visto che una compagna di scuola era rimasta incinta. A questo riguardo il giudice delle Assise correzionali è stato categorico: «Non c’è nessuna didattica di natura sessuale che può passare da quel metodo. In realtà ha agito per un suo interesse illecito, confermato dal tipo di pornografia che visionava in quel periodo».

‘Non troppo contenti di farlo’

L’inchiesta è scattata nel 2022 quando la polizia ha rintracciato la condivisione di cinque immagini sulla piattaforma Bing Images. Messo sotto torchio, il pensionato aveva esposto agli agenti la propria situazione personale, spiegato i motivi del suo agire e indicato spontaneamente l’episodio del 2019 con l’allora adolescente. Perciò durante l’inchiesta gli è stato consigliato di seguire una terapia, in effetti protrattasi per oltre un anno e terminata «mancando la necessità di proseguire, come concordato col medico», ha spiegato l’imputato riconoscendo che il trattamento «mi ha permesso di capire l’origine dei miei comportamenti, ossia il piacere nel visionare quel tipo di immagini. Siccome minimizzavo, mi ha reso attento che questo non era l’atteggiamento corretto da tenere, non da ultimo considerato il traffico lucrativo». Sollecitato dal giudice, ha poi aggiunto di aver anche «capito che i minori ritratti potevano non essere troppo contenti di farlo». Il 73enne ha spiegato di aver iniziato a guardarle «probabilmente dopo il prepensionamento». Dopo l’intervento della polizia «non l’ho più fatto. Trattandosi di un agire illegale, ho smesso subito». Riguardo ai programmi informatici di condivisione, ha detto di non conoscerli: «Tuttora non so come sia stato possibile che talune immagini siano state da me condivise».

‘Per il suo appagamento sessuale’

Sul primo e unico episodio, in aula l’imputato ha garantito che «non vi è stato alcun toccamento e che si è svolto in presenza della madre, con la quale ero d’accordo di procedere in quel modo». Nella requisitoria la pp Buzzi ha dubitato della reale presa di coscienza: «La presunta lezione di educazione sessuale rientra indubbiamente nella sfera dell’appagamento. Lui stesso lo ha riconosciuto in un interrogatorio, per poi ritrattare. Infatti come non rimanere incinta può essere spiegato con altri metodi, a parole o con dei disegni». Tutto ciò per la procuratrice descrive una colpa mediamente grave: «Lei era vulnerabile, ignara del doppio fine dell’uomo che l’ha intortata, sebbene non vi siano stati toccamenti. Quanto alla visione dei file, è proseguita per una decina d’anni. Lui sapeva indubbiamente di avere un problema, ma è andato avanti imperterrito, per poi rivolgersi a uno psicologo solo durante l’inchiesta. È emerso che lui fosse convinto del piacere provato dalle ragazzine». Da qui la richiesta di un trattamento psicologico obbligatorio, anche per azzerare il rischio di recidiva «che al momento non è scongiurato».

Prima abbandonato, poi reinserito

L’avvocata della difesa, Letizia Vezzoni, facendo leva sul buon comportamento avuto negli ultimi tre anni, ha chiesto una pena massima di 7 mesi senza più psicoterapia. Quanto al fatto che la ‘lezione’ sarebbe stata originata in realtà da un interesse di tipo sessuale, l’avvocata ha sottolineato che lui «lo ha ammesso al termine del primo interrogatorio, durato dieci ore, quando non ne poteva più e in assenza di avvocato». Contestata poi la condivisione volontaria di cinque immagini nella rete, «essendo avvenuta in modo inconsapevole». Da notare che l’Accusa aveva inizialmente firmato un abbandono per la cosiddetta ‘lezione’, ma il precedente giudice del Tribunale penale aveva chiesto alla procuratrice di chiarirlo. Da qui la decisione di reinserirlo in base al principio ‘in dubio pro duriore’ sfavorevole all’imputato e che si applica, dal profilo accusatorio, di fronte a situazioni incerte. «Ma quel fatto è stato istruito solo parzialmente, senza nemmeno cercare di sentire la vittima e sua madre. Ed era stato l’imputato stesso a suggerire di sentirle». Da qui la richiesta di assoluzione, «perché non siamo in presenza di un episodio dalla chiara finalità sessuale e di cui lui stesso ha parlato spontaneamente alla polizia». Di certo, ha riconosciuto la difesa, «è stato un comportamento inappropriato, tenuto quando consumava immagini pedopornografiche».

‘Scuse autoassolutorie’

Il giudice ha invece stabilito l’esistenza del reato di atti sessuali, sebbene in assenza di contatto fisico: «Facendo quanto richiestole, la vittima è stata indotta a subirlo. Indifferente che il suo sviluppo sessuale sia stato messo in pericolo o meno». La pena è stata ridotta di sei mesi anche per l’atteggiamento collaborativo tenuto durante l’inchiesta. «Ma ancora oggi – ha concluso il giudice – non sembra aver capito appieno cosa implichi il consumo di pedopornografia: i bambini ritratti non sono contenti, il resto sono scuse autoassolutorie».