Sono 1'706 le firme consegnate al Consiglio di Stato per ‘salvare’ fratello e sorella curdi cui la Sem ha ordinato di lasciare il Paese con la famiglia
Il numero esatto è 1’706. Tante sono le firme consegnate ieri mattina alla Cancelleria dello Stato da Zelal e Yekta Pokerce, 20 anni lei, 19 lui, i due ragazzi curdi con passaporto turco che la Segreteria di Stato della migrazione e il Tribunale amministrativo federale, negando loro il diritto all’asilo, hanno deciso di espellere al pari dei genitori Yahya e Muhterem e del fratellino 11enne Azad. La petizione, lanciata online tre settimane fa dagli amici di Zelal, chiede al Consiglio di Stato di intercedere con l’Ufficio della migrazione affinché lei e Yekta possano perlomeno proseguire, mentre si trovano nel limbo del cosiddetto “aiuto d’urgenza”, le loro formazioni scolastiche e lavorative.
La famiglia Pokerce risiede a Riazzino e giorno dopo giorno attende che la sentenza di espulsione dal nostro territorio diventi operativa. Questo, a causa di due leggi (stranieri e asilo) che l’avvocato della famiglia, Immacolata Iglio Rezzonico, ha definito «estremamente razziste e per questo andrebbero urgentemente cambiate».
Se consideriamo il caso specifico, la tesi dell’avvocato è incontestabile. E i motivi si sommano: papà Yahya, 52 anni, in Turchia è perseguitato politico. Per aver postato una vignetta su Erdogan nel 2014, 7 anni dopo gli era stata consegnata una notifica di processo e se condannato, come sarebbe, finirebbe dritto in carcere. Per questo è stato costretto a fuggire. Quanto a Zelal e a Yekta, sono perfettamente integrati nel nostro tessuto sociale, parlano l’italiano, hanno amicizie, entusiasmo e indiscusse capacità: la ragazza studia “visual design” alla Scuola superiore specializzata d’arte applicata (Sss’aa) dello Csia – dove compagni e docenti la adorano –, mentre il fratello ha iniziato e sta portando avanti con profitto un apprendistato come elettricista, frequentando il Centro professionale tecnico di Mendrisio.
Non fosse sufficiente neppure questo, c’è un’ulteriore, enorme discriminante rispetto all’obbrobrioso obbligo d’uscita: il piccolo Azad soffre di un disturbo dello spettro autistico. Alla Scuola speciale di Riazzino è seguito come non lo potrebbe mai essere in Turchia. I pareri sono unanimi nell’indicare che sradicarlo ora dalla sua rete di protezione sarebbe deleterio e totalmente disumano.
Eppure.
Poi ci sono le immagini. Dal rito della consegna delle firme, in cui Zelal e Yekta erano accompagnati da una dozzina di compagni giunti appositamente in Piazza della Foca, ne emergono alcune significative. Una è il lungo applauso tributato dagli amici quasi per fugare l’incertezza e la grande preoccupazione con cui la famiglia e tutto il loro contesto convivono ormai da mesi. È stato un applauso intenso, liberatorio, emozionante, dal quale trasparivano energia e tristezza, disperazione e coraggio. Un’altra immagine è quella di uno scampolo d’intimità dei due fratelli, cui la situazione, ci hanno confidato, ha letteralmente tolto il sonno. «Qui non parliamo soltanto della possibilità di continuare a studiare; qui parliamo della nostra vita, di quella dei nostri genitori e di nostro fratello». Zelal lo ha detto facendosi tremendamente seria, gli occhi cerchiati dalla stanchezza, mentre il fratello minore la osservava riconoscendone una volta di più la grande determinazione a rincorrere ciò che è giusto e naturale che sia, più che un semplice sogno.
La terza immagine è il capannello di amici con cui abbiamo parlato per capire chi è Zelal. Descrivendola come impegnata, altruista, particolarmente dotata in modellazione 3D e sempre partecipe in classe – dove non lesina mai sulle domande ai docenti –, i compagni David, Clelia, Dilan, Carmelo e Gabriele si sono detti preoccupati e increduli per una decisione definita «assurda e disumana» a cui, aggiungono, «cerchiamo di non pensare troppo», preferendo vivere il presente trattenendo con loro la gioia di una bella amicizia. Yekta, lui, parla della Svizzera come di un Paese in cui alcune leggi, come quella sull’asilo e l’altra sugli stranieri, sono federali, ma certe sensibilità sono cantonali, ed è a quella dell’Ufficio ticinese della migrazione che si appellano i Pokerce tramite il Consiglio di Stato.
Il tema in governo è in realtà già da mesi grazie all’interessamento personale della ministra socialista e direttrice del Decs Marina Carobbio Guscetti, che Iglio Rezzonico aveva contattato con la richiesta di fare il possibile per sensibilizzare i quattro colleghi. Carobbio Guscetti aveva dichiarato di ritenere «auspicabile» che i due giovani potessero continuare gli studi; questo, per il semplice motivo che «il diritto alla formazione e la tutela dei diritti dei minori per tutti i bambini, le bambine e i giovani, indipendentemente dalla loro origine, sono per me una priorità». Purtroppo, in questo cantone e in questa nazione non basta la sensibilità di una consigliera di Stato per cambiare il corso delle cose. Lo sa bene Iglio Rezzonico, costretta a osservare la sua battaglia per i Pokerce come una clessidra che si sta esaurendo, ma non senza la speranza che la si possa nuovamente capovolgere affinché il tempo continui a scorrere e i pezzi del mosaico possano infine posizionarsi al posto giusto.
Rispetto al momento del lancio della petizione qualcosa di importante è cambiato: in tempi insolitamente rapidi la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), cui la legale della famiglia si era appellata, ha rigettato il ricorso: «Come tutti i ricorsi in materia di asilo, anche il mio si basava su quelle che io ritenevo delle violazioni dei diritti fondamentali delle convenzioni internazionali. La Cedu ha ritenuto che le violazioni da me ravvisate non ci sarebbero state e non ha quindi mandato l’esame alla Camera, ma si è espressa subito tramite il giudice unico. Se mi si chiede in che modo giudichi questa sentenza e se essa mi convinca, posso solo rispondere con un “no comment”».
Preso atto di questa situazione «che ha gettato i Pokerce nella disperazione», come rileva Iglio Rezzonico, «con la famiglia si è deciso di separare le procedure, mantenendo purtroppo sul piede di partenza i genitori e il figlio più piccolo». Per Zelal e Yekta è diverso: «Le 1’700 firme e tutto il movimento che c’è stato fanno presupporre un’ottima integrazione, così settimana scorsa ho inviato per loro un’istanza come “caso di rigore” all’Ufficio migrazione, che come autorità cantonale di prossimità è in grado di giudicare la situazione e ha quindi tutti gli elementi per dare un preavviso (positivo o negativo) al rilascio di un permesso B per integrazione. Rilascio che spetta in ultima istanza alla Sem». È vero, ammette e conclude l’avvocato, «che siamo un po’ al limite perché ancora non è stato raggiunto il termine minimo dei 5 anni di permanenza (siamo a 4), ma ciononostante i due parlano perfettamente l’italiano e sono assolutamente ben integrati. In questo senso una parola buona del Consiglio di Stato (cui è indirizzata la petizione) potrebbe essere importante». E ci direbbe molto su chi ci governa.