Dopo oltre vent'anni Brenno Balestra, primario di Medicina interna, si accinge a passare il testimone. È stato anche il direttore sanitario più longevo
Dopo oltre vent’anni trascorsi in corsia, lì a Medicina interna, l’Obv per Brenno Balestra è diventato un po’ la sua seconda casa. Distaccarsene, quindi, non è facile. In realtà il primario non smetterà del tutto il camice: continuerà a collaborare a tempo parziale con l’Ospedale regionale di Mendrisio come medico aggiunto in ambulatorio. Medici, insomma, lo si è per sempre. E curare i pazienti, ci dice, resta la sua attività d’elezione. «In ospedale, in effetti, mi vedono un po’ come il ‘medico di famiglia’ momò nel percorso ospedaliero, grazie a un rapporto di vicinanza con i malati, che si sentono più a casa loro, e i familiari».
Passato il testimone di direttore sanitario, lui il più longevo dell’Eoc, l’Ente ospedaliero cantonale, circa un anno fa al dottor Ken Galetti, primario di Chirurgia, dal primo agosto consegnerà il ‘suo’ reparto al collega Matteo Mombelli, medico specialista in Medicina interna generale e malattie infettive, dal 2022 viceprimario a Locarno. Per il dottor Balestra, quindi, si chiude un cerchio, dopo aver portato un contributo che l’Eoc non fatica a definire “straordinario e instancabile”.
Non è del resto retorico affermare che in questo ultimo ventennio si è scritto il destino dell’Obv, ospedale di prossimità. E questo, ammette il medico, «tra gioie – come i traguardi dei 150 anni del Turconi e i 20 dell’Obv o la designazione quale migliore ospedale della Svizzera nel 2007, ndr – e dolori». Una direzione sanitaria, frutto di un lavoro di squadra, inevitabilmente pone davanti a delle sfide. Soprattutto quando ci si ritrova a misurarsi con «scelte strategiche e dettate dalla pianificazione ospedaliera». Il ruolo, quest’ultimo, confida, che gli è piaciuto di più, accanto all’essere il volto della struttura, a occuparsi di qualità e sicurezza e a raccogliere pure i reclami per qualche incidente di corsia («e negli anni di colloqui anche con familiari scontenti ne ho avuti tanti»). Balestra tiene a far presente che «ciò che ho potuto realizzare è anche grazie alla forza della squadra: è stato un lavoro collegiale».
Sono stati, insomma, vent’anni intensi, che hanno aperto la strada ai cambiamenti?
Di cambiamenti ce ne sono stati, e parecchi. Ho visto da vicino la realizzazione dell’ospedale cantonale multisito; e siamo sulla buona strada. Oggi, infatti, questo modello, non dato per scontato, è più chiaro a tutti e va a rafforzare il concetto di ospedali di rete. Da parte mia, ci ho sempre creduto, perché rappresenta una ricchezza e al contempo una fortuna per il territorio. Taluni, invece, l’hanno visto come una palla al piede. Di fatto, con la sfida futura che ci porranno i pazienti molto anziani, essere un ospedale di prossimità è assai importante. È giusto, in altre parole, centralizzare le competenze specifiche e gli aspetti più tecnologici, ma non dimentichiamo che il 90 per cento della nostra missione si gioca nelle ‘periferie’. Di conseguenza è strategico che un nosocomio venga integrato nella rete territoriale dei servizi sociali, dei medici di famiglia, delle prestazioni.
Un processo che, però, si è rivelato in salita.
Il cammino verso la rete multisito, certo difficile da realizzare, è stato complesso. E non sono mancati accenti anche molto campanilistici, che io ritengo sbagliati ma che è stato faticoso abbandonare, pure all’interno dell’Eoc, dove vi sono state discussioni anche veementi. In Obv, comunque, sicuramente noi abbiamo capito meglio il ruolo del nostro ospedale. Infatti, come detto, stiamo cercando di portare avanti il concetto di ospedale di prossimità. E di fatto il Beata Vergine sta diventando sempre più un polo sanitario per la popolazione. E ciò anche grazie all’avvento, nel 2022, della nuova Ala sud. Detto altrimenti, siamo consapevoli della nostra missione; del fatto che dobbiamo lasciare ad altre strutture gli interventi complessi, ma che possiamo fare bene con i nostri mezzi nell’ambito dei controlli ambulatoriali e del post acuto. Evitando altresì ai pazienti di andare su e giù per il cantone, ma portando qui, vicino a casa, le competenze specialistiche. E la situazione nel tempo è migliorata davvero tanto.
A proposito di prossimità, la rete dei servizi sul territorio funziona?
Si è rinsaldata negli anni, anche se può migliorare ancora. Dal canto suo, l’ospedale cerca di essere una struttura sempre più aperta. A dare una svolta, in questo ambito, è stata la creazione dell’Ala sud, nella quale ho fortemente creduto. Nei suoi spazi si è dato vita a un nuovo concetto di sanità: da un lato vi sono il poliambulatorio – dove in un solo luogo si trovano più specialità possibili –, che è in divenire; e dall’altro, il ‘Punto Medico’, dove si accolgono i migranti e vengono deviati dal Pronto soccorso i cosiddetti casi ‘bagatella’ e dove viene praticata la medicina sociale e di famiglia, come risposta a un numero sempre minore di medici di famiglia sul territorio. Vi è poi il reparto Rami, 30 letti post acuti ‘conquistati’ grazie ai buoni rapporti e al sostegno trasversale dei politici del Mendrisiotto, da me capitanati e che mi è valsa la Distinzione comunale di Mendrisio nel 2016. Questa realtà permette, in effetti, ai vari partner di collaborare e di coltivare e sviluppare la rete. Certo, dobbiamo perfezionarci ancora. A questo si è aggiunto il ‘day hospital’, con la chirurgia più ambulatoriale. Tutto ciò ci consegna, quindi, una visione futura dell’ospedale e ci dà modo di affrontare adeguatamente le fragilità dei grandi anziani. Quanto abbiamo costruito mi ha permesso, insomma, di lasciare in tranquillità la direzione sanitaria, fiducioso che per il prossimo ventennio le vie sono tracciate: abbiamo fatto le scelte giuste e convinto anche l’Ente a seguirci e a investire nel futuro.
Guardando avanti, il cantiere aperto della pianificazione ospedaliera potrà riservare qualche sorpresa al Mendrisiotto e all’Obv?
La pianificazione è in corso, gli ospedali stanno avanzando le loro richieste in vista dei futuri mandati, e non so se si avranno tutte le risposte attese (anche se voglio avere uno sguardo lungimirante). Quello che vedo come problema e mi preoccupa a medio-lungo termine è l’avvenire della Maternità. Si tratta di un tema difficile da affrontare, anche se dovremo cercare di farlo serenamente. In questo momento i numeri ci dicono che i parti sono pochi e che continuano a diminuire in tutta la Svizzera. Pur volendo bene al nostro reparto ‘mamma bambino’, lo vedo un po’ in affanno, perché si fa sempre più fatica a trovare personale disponibile a venire in una piccola maternità.
Quale soluzione intravede?
Se guardo lontano, visto la denatalità nel Paese, vedo in futuro due grandi maternità, una nel Sopraceneri e una nel Sottoceneri. Verosimilmente una pubblica legata all’ospedale pediatrico a Bellinzona e una legata al privato nel Luganese.
Toccherà, dunque, pure alla politica fare la sua parte. Tornando alle ‘spine’ di una direzione sanitaria, quali sono state le sue?
Una, senz’altro, è stata la pandemia, quando, a inizio 2020, ho visto svuotarsi l’ospedale e trasferire il personale a Locarno, scelto come ‘ospedale Covid’. In realtà, ci sarei andato anch’io volentieri, ma ero il ‘capitano’ della nave. Così ci siamo ritrovati all’Obv con poco personale e a lavorare con una sicurezza messa un po’ a repentaglio. Con le informazioni allora a disposizione, però, pensavamo di riuscire a restare ‘puliti’, senza Covid. Invece, era una illusione, che si è rivelata anche molto faticosa e dolorosa quando ci siamo accorti dei contagi che avvenivano in ospedale. È stato sconvolgente. Succedeva che pazienti ricoverati a Mendrisio per altri problemi, si ammalavano e venivano spostati a Locarno. E poi venivamo a sapere che qualcuno non ce l’aveva fatta. Per dei curanti è pesante. Abbiamo reagito contattando, al telefono o per lettera, le famiglie dei pazienti. È stato molto duro. Ma, pur in quel frangente, non ho conosciuto rabbia ma grande comprensione e umanità. Posso dire, quindi, che è stato doloroso ma arricchente.
Un punto d’onore, per contro, in questi anni è stato altresì il progetto di ospedale interculturale, che ha visto l’Obv fare da apripista.
In effetti, siamo l’unica struttura ospedaliera con una figura di mediatrice culturale, introdotta nel 2017 grazie a un paziente con spirito filantropico, che si interfaccia anche con il Centro federale d’asilo. Una presenza nata per gestire la crisi migratoria dall’Africa nel 2016, ma che negli anni ha dato modo di focalizzarci sulle categorie vulnerabili della popolazione. Da noi vi è, infatti, tutta una fascia di cittadini caduta in una nuova povertà e alla quale non si riescono a garantire cure adeguate ed eque. E i team curanti vengono formati proprio per occuparsi di questi pazienti. Per la regione linguistica italofona sono copresidente della neonata Associazione svizzera per l’equità delle cure, che mi occuperà per i prossimi anni anche perché il discorso sulla vulnerabilità e l’attenzione ai pazienti più fragili è sempre stato nelle mie corde.