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Denaro in odor di mafia, ‘l'ex fiduciario non ha assolto ai suoi doveri’

Condanna bis della Corte d'appello federale: riconosciuta la ‘carente diligenza’. Probabile un nuovo ricorso al Tribunale federale

‘I campanelli d’allarme c’erano’
(Ti-Press)
16 luglio 2025
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È l'ultimo atto giudiziario di una vicenda che ha segnato oltre 10 anni della vita di un ex fiduciario chiassese che alla fine del 2017 si è ritrovato di fronte alla Corte del Tribunale penale federale (Tpf), a Bellinzona, per rispondere del reato di riciclaggio. Assolto nel 2022 da questa imputazione e allontanata, in via definitiva, l'ombra della ’ndrangheta – all’origine del percorso processuale l'operazione “Rinnovamento” coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Milano –, ora il professionista si è visto confermare una condanna per "carente diligenza in operazioni finanziarie". La Corte di appello del Tpf a cui è stato rimesso nelle mani il caso – a seguito del ricorso dello stesso accusato – ha di fatto ricalcato quanto deciso dai giudici che l'hanno preceduta, riconoscendo la sua colpevolezza, anche per la falsità in documenti e per l'inganno nei confronti delle autorità e infliggendogli una pena pecuniaria, comunque inferiore, di 240 aliquote giornaliere di 270 franchi l'una. Pena sospesa per un periodo di due anni. La sentenza pronunciata nel giugno del 2024 e resa pubblica oggi potrebbe, però, non essere la parola finale sulla vicenda. È infatti probabile che l'ex fiduciario impugni ancora il verdetto e che l'incarto torni sul tavolo dell'Alta Corte di Losanna. Sullo sfondo il tema del lungo tempo trascorso e della violazione del principio di celerità, già evocati e peraltro riconosciuti anche da questa Corte.

‘Averbbe dovuto verificare’

In questa storia giudiziaria, passata da un dibattimento all'altro, rimane un punto fermo: l’accertata origine criminosa del denaro approdato in Svizzera, dopo essere transitato da Dubai e dalle Bahamas, e finito al centro della relazione d'affari dell'ex fiduciario e dei suoi clienti nel periodo 2012-2014. A fare da mediatore all'epoca c'era quello che per le sentenze era l’uomo di fiducia del clan Martino in Svizzera – cosca reale titolare del denaro, provento del narcotraffico e dell'usura, come certificato dalla giustizia italiana –, lui sì condannato in via definitiva nel 2017 a 5 anni e mezzo. Quale era il nodo gordiano all'esame della Corte d'appello? Stabilire se il professionista ticinese ha mancato ai suoi doveri. E qui, ancora una volta, le argomentazioni della difesa – ad assisterlo sin qui l’avvocato Mario Postizzi – determinata a chiedere il proscioglimento da ogni accusa, non hanno fatto breccia. I "campanelli d'allarme che avrebbero dovuto far quantomeno sorgere dei dubbi sul reale beneficiario economico" c'erano, si ribadisce facendo riferimento anche all‘"importante importo da trasferire" (si parlava di mezzo milione di franchi). Come dire che, norme alla mano, "l'imputato avrebbe dovuto effettuare delle verifiche per accertarsi della reale titolarità di tale importo". Invece, si rileva nel verdetto, ha "piuttosto deciso di non porsi delle domande", accontentandosi, di fatto, delle informazioni ricevute da terzi; perseverando nel suo agire e fornendo informazioni divergenti e tali da minare agli occhi dei giudici la sua credibilità.

Non solo, rincarano i giudici, l'accusato, "responsabile LRD – o responsabile dell'antiriciclaggio all'interno di un'azienda, ndr – e con ampia esperienza nel settore finanziario, era consapevole del proprio obbligo di identificare l’avente diritto economico con la diligenza richiesta dalle circostanze". In buona sostanza, si precisa nella sentenza, "egli ha consapevolmente deciso di chiudere gli occhi e non verificare nulla, nonostante la sussistenza di molteplici fattori che dovevano insospettirlo circa i reali aventi economicamente diritto, e portarlo a effettuare ulteriori accertamenti". Di conseguenza, ha "scientemente ignorato i vari indizi sussistenti, decidendo di non accertare alcunché", agendo, si conclude, "intenzionalmente". Motivazioni che una volta di più, se si deciderà di appellarsi di nuovo al Tribunale federale, andranno smontate.

Media, resoconti ‘oggettivi’

Un procedimento penale, si sa, può cambiare la vita dei suoi protagonisti e avere degli effetti sulla loro quotidianità. E questo è un dato di fatto che pure la Corte di appello fa suo. L'ex fiduciario, ad esempio, si sarebbe trovato costretto, si annota, a lasciare il Ticino. L'attenzione mediatica (o come viene definita la "sofferenza mediatica"), però, quella, rimarcano giudici, non può essere considerata una aggravante. Non è provato, infatti, si spiega, che i resoconti stampa non fossero oggettivi. In effetti, si osserva tra le righe della sentenza, appare "naturale che un procedimento penale porti con sé anche un determinato interesse mediatico. Il solo fatto che vi siano stati negli anni molteplici articoli in cui sono stati esposti i fatti imputati e i risvolti del procedimento penale non è sufficiente ai sensi della summenzionata giurisprudenza". Insomma, media ‘assolti’.

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