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I retroscena del rapimento: Cristina Mazzotti non doveva morire

Le ultime novità legate al sequestro nel 1975 della 18enne milanese, un caso con addentellati anche ticinesi

Un sequestro firmato dalla mafia calabrese
(Ti-Press)
29 giugno 2025
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Cristina Mazzotti non doveva morire. Una volta pagato il riscatto (un miliardo e cinquanta milioni di lire) la diciottenne milanese, rapita nella notte tra il 30 giugno e il primo luglio 1975, ad Eupilio, sopra Erba, sarebbe dovuta tornare a casa. Così aveva stabilito la ‘ndrangheta, e meglio la cosca Morabito che aveva organizzato il primo sequestro di una donna, una delle vittime più giovani degli anni terribili dei rapimenti commessi dalla mafia calabrese. Tenuta sequestrata in condizioni disumane per un mese, Cristina morì per i tranquillanti che i suoi aguzzini le somministravano per placare i pianti e la paura. La ragazza, fu infatti, uccisa dalla “reiterata somministrazione di calmanti e sonniferi” di cui i suoi carcerieri, scrivono i giudici della sentenza di primo grado, non avevano la minima cognizione. Il ticinese Libero Ballinari, in uno dei suoi turni di vigilanza, le fece ingerire 4 pillole di 4 diversi colori; il capo della banda, Giuliano Angelini, in un solo giorno le diede 60 gocce di Valium (ansiolitico), due pastiglie di Megadon (ipnotico), una compressa di Optalidon (analgesico) a cui a poche ore di distanza si aggiunsero ulteriori 80 gocce di psicofarmaco sciolte nell'acqua da Loredana Petroncini, la donna di Angelini. Un rapimento che mezzo secolo fa tenne con il fiato sospeso un'intera nazione, poi sgomenta per la tragica fine della studentessa. A cinquant'anni del sequestro di Cristina, molto è stato scritto, parecchie pagine però rimangono oscure, alcuni interrogativi rimangono ancora senza risposta: manca ancora il nome e il volto del basista.

Le ipotesi di allora non hanno sciolto il quesito. Oggi si viene a sapere che la ’Ndrina di Africo nella Locride, in quegli anni (ed anche in quelli successivi) molto attiva in Lombardia, soprattutto nelle province di Como e Varese, con i carcerieri della studentessa aveva sottoscritto un patto: durante la prigionia, alla diciottenne non le si doveva ‘’torcere un capello‘’, non le si doveva fare del male, neanche in modo lieve. Cristina fu letteralmente sepolta viva, tenuta segregata e costretta a stare in posizione distesa in una fossa lunga due metri e mezzo e larga un metro e 65, profonda un metro e mezzo e con un tubicino di plastica usato come impianto di aerazione. Questo nel terreno della cascina Padreterno, nei pressi di Castelletto Ticino. Le vennero somministrate dosi massicce di valium per sedarla; periodicamente i carcerieri (Giuliano Angelini, Loredana Petroncini, Sebastiano Spadaro e il ticinese Libero Ballinari) la prelevavano dalla buca al fine di far capire ai parenti che era ancora viva per chiedere il riscatto. La 18enne resistette venticinque giorni. Il suo corpo senza vita, venne trasferito a inizio agosto in una discarica di Varallino, vicino a Galliate, in provincia di Novara, quando la famiglia aveva già pagato il riscatto, trasferito in Calabria, consegnato a Francesco Gattini, esponente della cosca Morabito. E a Sambiase, periferia di Lamezia Terme, dal 5 al 7 agosto, la ‘ndrangheta ha ‘processato‘ Angelini, arrivato in Calabria, assieme a Loredana Petroncini e Giancarlo Geroldi, un altro dei fiancheggiatori, per prendere la propria quota del riscatto. La condanna per Angelini, in quanto responsabile della morte di Cristina? Solo il 10% del riscatto pagato dal padre della studentessa milanese: 105 milioni di lire, invece, del mezzo miliardo pattuito.

Il corpo di Cistina venne ritrovato la sera del 1° settembre, a seguito della confessione di Libero Ballinari, contrabbandiere di valuta ticinese, fermato dopo che aveva cercato di cambiare in una banca di Tresa 56 milioni di lire, provenienti dal riscatto. Ricorda Pericle Bergamo, all'epoca capo della Squadra Mobile di Como: “Arrivò in Questura il delegato di polizia (Polizia cantonale, ndr) Gualtiero Medici: ho notizie importanti sul sequestro Mazzotti”. La confessione di Ballinari, la cartina della discarica di Varallino: il corpo della studentessa da Geroldi era stato nascosto sotto una manciata di terra, sopra la quale c'era una carrozzina. Qualche giorno dopo ancora Medici a Como: “Si era presentato con la lista del gruppo di fiancheggiatori, carcerieri, centralinisti e riciclatori del denaro. Tredici nomi che erano stati fatti dal Ballinari”. Lo si sospettava, ma solo ora si ha la conferma. Bastarono ventiquattro ore per spedire tutti in carceri. Due nomi erano sui taccuini della Polizia di Como: quello di Spadaro (telefonista) e Geroldi, che gli faceva da autista. In Procura a Como c'era chi avrebbe voluto arrestarli, prevalse la linea dell'attesa, nella speranza di un ritorno a casa di Cristina. Dopo il ritrovamento del corpo della studentessa l'inchiesta passô di competenza alla magistratura di Novara.

Tredici gli imputati, otto dei quali in primo grado condannati all'ergastolo. Poi cinque i condanne fra i 30 e i 5 anni. Otto dei condannati sono deceduti. Intanto, il 24 settembre scorso in Corte d'Assise di Como, il processo nei confronti dei tre rapitori materiali di Cristina: Domenico Latella, 70enne; Giuseppe Calabrò, 75enne e Antonio Tallia, 74enne. Sul banco degli imputati c'era anche Giuseppe Morabito, 80enne di Africo, personaggio di spicco dell'omonima cosca, residente nel varesotto, deceduto nei mesi scorsi, Ai presunti rapitori (ombre per alcune ore, il tempo necessario per sequestrare la studentessa e consegnarla dalle parti di Appiano Gentile ai carcerieri) si arrivati nel 2007 sulla base di un palmo e due impronte digitali raccolte dalla Scientifica nel 1975, riconducibili con certezza a Latella, che messo alle strette aveva ammesso di aver partecipato alla prima fase del sequestro, facendo i nomi di Calabrò e Tallia, che negano qualsiasi coinvolgimento nel rapimento della studentessa. La sentenza è attesa entro la fine dell'anno.