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‘C’è chi per disperazione si ciba di sabbia e acqua salata’

Parliamo della tragica situazione a Gaza con la presidente dell’associazione ticinese Almalayika che aiuta bimbi nella Striscia e con una portavoce Unicef

A Gaza non uccidono solo le armi. ‘Oggi l’intera popolazione sotto i cinque anni, oltre 320mila bambini, è a rischio di malnutrizione acuta’
(Keystone)
5 agosto 2025
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«Urlare non bastava più». È nata da questa presa di coscienza, circa un anno fa in Ticino, l’associazione Almalayika Switzerland che si occupa di fornire aiuti immediati – come cibo, acqua e assistenza medica – ai bambini orfani della Striscia di Gaza. «Nel corso del primo anno di attività, il progetto si è ampliato: siamo riusciti ad aprire una scuola primaria a Gaza Nord e, più recentemente, una seconda sede nella zona centrale della Striscia. I nostri sforzi si concentrano principalmente sui bambini rimasti orfani o con disabilità, ma cerchiamo anche di sostenere le famiglie sfollate attraverso la distribuzione di beni di prima necessità. La nostra priorità rimane però l’infanzia, che oggi più che mai ha bisogno di protezione e speranza». Le parole sono di Houaida Sekri, fondatrice e presidente dell’associazione, nonché coordinatrice dei progetti, che abbiamo intervistato.

Quando e come è nata l’organizzazione?

Sono cresciuta con un profondo amore per la Palestina, con una forte sensibilità verso le ingiustizie, il razzismo e le cause umanitarie. Da sempre sognavo di fondare un’associazione che potesse offrire un aiuto concreto ai più vulnerabili. Quando è iniziato il genocidio a Gaza, dopo mesi di manifestazioni a Milano, ho sentito il bisogno urgente di trasformare quel sogno in azione concreta. Tornavo da ogni protesta distrutta, con la sensazione di non aver fatto abbastanza. Mi chiedevo: “Ho liberato la Palestina? Ho salvato qualcuno?”. La risposta era sempre no. Guardando le immagini dei bambini di Gaza – affamati, feriti, soli – ho capito che dovevo fare di più. È stato in quel momento che ho deciso di fondare questa associazione e iniziato a creare una rete di persone disposte a collaborare dal Ticino ma soprattutto a Gaza, per portare aiuti reali sul campo.

Le persone che vi lavorano sono volontari? Come vengono gestite le strutture sul territorio?

La maggior parte dei nostri collaboratori in loco opera su base volontaria, abbiamo diversi team di professionisti (medici, infermieri, docenti, cuochi…), ognuno incaricato di seguire una parte del progetto. Li abbiamo conosciuti attraverso una mia rete di contatti fidati in Palestina e fin da subito si è instaurato un forte rapporto di fiducia e collaborazione. Al momento non abbiamo personale svizzero sul posto: preferiamo contare su persone del luogo competenti, valide e profondamente motivate che si interfacciano con me più volte al giorno per concordare le decisioni e stabilire i passi da compiere.

Come gestite la situazione rispetto alle limitazioni di accesso per aiuti e lavoratori?

La situazione sul campo è estremamente complessa e continua a peggiorare. I nostri collaboratori monitorano costantemente la disponibilità e i prezzi delle merci. Quando si presenta l’occasione – ossia quando i prodotti sono reperibili e a un costo sostenibile – veniamo subito avvisati per procedere con l’acquisto e la distribuzione di beni essenziali come pannolini, latte in polvere e pacchi alimentari. Purtroppo si tratta di opportunità sempre più rare. Quando riusciamo a reperire del materiale, lo distribuiamo in modo mirato, a famiglie selezionate con bambini orfani o in condizioni critiche. Questo per evitare scene di disperazione, come quelle tristemente documentate dai media, e preservare, per quanto possibile, la dignità delle persone che aiutiamo.

Con quali organizzazioni collaborate sul territorio e in che modo?

Finora siamo riusciti a operare in modo autonomo grazie a una rete di contatti molto efficiente e a collaboratori locali fidati. Tuttavia, per l’acquisto di beni che riescono a entrare nella Striscia, la collaborazione con grandi Ong internazionali è a volte necessaria, in quanto detengono l’accesso privilegiato a determinati canali.

Ci sono altre realtà del genere in Ticino? Collaborate anche con queste?

No, siamo autonomi anche in Ticino e non abbiamo contatti con organizzazioni analoghe. Esistono altre realtà sensibili alla causa palestinese in Ticino ma il nostro lavoro è puramente umanitario: non ci occupiamo di attività politica, ci concentriamo esclusivamente sull’aiuto concreto e diretto.

Quali sono le principali difficoltà da voi riscontrate?

Le difficoltà maggiori sono legate alla situazione politica e militare: il blocco degli aiuti, i continui bombardamenti e l’incertezza costante. Viviamo con l’angoscia che una telefonata non arrivi più, perché un nostro collaboratore potrebbe essere rimasto ucciso, o che uno dei bambini che aiutiamo possa essere ferito o morire. Purtroppo è già successo e, proprio pochi giorni fa, un’ auto con a bordo alcuni dei nostri collaboratori è stata attaccata dal governo israeliano. Fortunatamente ne sono usciti illesi ma sono stanchi, esausti, spesso rassegnati. Il senso di impotenza è devastante. E noi, anche a distanza, lo sentiamo tutto e sentiamo ancora di più il dovere di continuare a raccogliere fondi per aiutare, almeno in parte, questo popolo massacrato.

In quali altri modi è possibile, secondo voi, offrire aiuti concreti alla popolazione dal Ticino?

Vorrei approfittare di questa intervista per lanciare un appello alla popolazione ticinese, che sappiamo essere estremamente generosa: donate. Anche un piccolo gesto, come il costo di un paio di caffè, può fare una grande differenza. Con pochi franchi da parte di ognuno possiamo acquistare farina, acqua potabile, verdure e portare sollievo immediato a bambini che non hanno più nulla. I nostri collaboratori sono stremati, esausti, ci arrivano giornalmente segnalazioni di gente che si sta cibando di sabbia e acqua salata per disperazione. In questi giorni siamo stati in grado di fare una distribuzione di acqua, pane e verdure in alcune aree: aiutateci a non fermarci, aiutateci a continuare con il nostro lavoro e a portare un po’ di sollievo. (Per informazioni: almalayika.org)

UNICEF

‘Fase di grave carestia’

Ad approfondire lo scenario preoccupante già descritto da Houaida Sekri è la testimonianza affidata a ‘laRegione’ da Rosalia Bollen, portavoce di Unicef a Gaza: «Attualmente la situazione umanitaria è drastica. Gaza sta affrontando una fase di carestia e insicurezza alimentare, il sistema sanitario è quasi del tutto crollato e queste condizioni, già di per sé precarie, sono aggravate dai continui bombardamenti».

In questo contesto critico l’annuncio delle pause umanitarie, iniziate il 27 luglio, è importantissimo, spiega Bollen, ed è stato accolto con molto favore da Unicef, che è riuscita nei primi giorni a importare moltissimi beni materiali necessari alla sopravvivenza della popolazione. «Si tratta di un buon inizio, ma non di una soluzione sufficiente. Le famiglie a Gaza hanno bisogno di un afflusso di aiuti umanitari e beni commerciali di massa, in particolar modo di cibo, medicinali e prodotti igienici», rileva Bollen.

Giorni interi senza mangiare

Nella Striscia, articola la nostra interlocutrice, «più di una persona su tre trascorre giorni senza mangiare. La malnutrizione acuta è aumentata a un ritmo senza precedenti: a giugno, 6’500 bambini sono stati identificati come malnutriti, il numero più alto dall’inizio del conflitto. A luglio si registra un numero ancora più elevato, 5mila bambini solo nelle prime due settimane. A Gaza City i livelli di malnutrizione tra i bambini sotto i cinque anni sono quadruplicati in due mesi, raggiungendo il 16,5%. Oggi l’intera popolazione sotto i cinque anni nella Striscia, oltre 320mila bambini, è a rischio di malnutrizione acuta». Come spiega Bollen, si tratta di una condizione che richiede trattamenti urgenti perché, «oltre a determinare una grave diminuzione di peso, può generare un blocco della crescita con conseguenze a lungo termine, come una mancata crescita degli organi interni e uno sviluppo psicologico ed emotivo parziale».

All’agghiacciante quadro si aggiunge il fatto che i feriti non hanno le cure necessarie e le malattie, soprattutto le ‘waterborne diseases’ – patologie derivate dalla presenza di batteri e altri microrganismi nell’acqua – e le malattie della pelle, stanno registrando un forte aumento, illustra Bollen. Le testimonianze fornite dalla portavoce dell’organizzazione umanitaria raccontano di «ospedali carenti di medicine, attrezzature e prodotti di base», di «donne obbligate a usare lembi di tessuto e materiali di fortuna al posto degli assorbenti» e di «famiglie intente a lavare i piatti con lo shampoo per mancanza di prodotti adeguati».

Uccisi 320 lavoratori dell’Onu

Attualmente Unicef è costretta a svolgere il proprio lavoro sotto bombardamenti incessanti e quotidiani. Inoltre, come segnalato dalla portavoce, l’88% della Striscia è inaccessibile in quanto soggetto a ordini di evacuazione o designato come zona militare. Questo rende il lavoro del personale delle associazioni umanitarie ancora più pericoloso e complesso – oltre 320 lavoratori dell’Onu sono stati uccisi dall’inizio del conflitto – e il loro raggio di azione ridotto e limitato. Per questi motivi, e non solo, Unicef continua a chiedere «un cessate il fuoco immediato e il libero accesso degli aiuti umanitari a Gaza».