Il Museo d’arte della Svizzera italiana presenta in prima mondiale alcuni scatti a colori del grande fotografo svizzero. Oggi l’inaugurazione.
È cominciato tutto da alcune vecchie scatole contenenti centinaia di negativi su lastre di vetro di pochi centimetri. Quei negativi sono del fotografo Werner Bischof (1916-1954), ritrovati dal figlio Marco. Suo padre è considerato non solo uno fra i più grandi fotografi svizzeri, ma uno fra i maestri della fotografia del XX secolo a livello mondiale. Soprattutto, è celebre per i suoi reportage in bianco e nero realizzati durante i suoi numerosi viaggi in tutto il mondo, dall’Europa del secondo dopoguerra all’Oriente più spirituale, passando per le campagne negli Stati Uniti fino all’ultimo viaggio in Sud America.
Il lavoro di riscoperta, ricerca e restauro del corpus di lastre ha portato all’allestimento della mostra ‘Werner Bischof. Unseen Colour’ che il Museo d’arte della Svizzera italiana (Masi) di Lugano e il Werner Bischof Estate (che Marco Bischof dirige da trent’anni) – in collaborazione con la Fotostiftung Schweiz di Winterthur – propone dal 12 febbraio al 2 luglio, nella sua sede del Lac. L’inaugurazione, come ricordato il 9 febbraio in conferenza stampa, si svolgerà sabato 11, alle 18.
Spicciate le informazioni di servizio torniamo alla mostra, una prima mondiale, che espone cento stampe digitali a colori tratte da quei negativi originali restaurati, dal 1939 agli anni Cinquanta. L’allestimento a cura di Ludovica Introini con la collaborazione di Marco Bischof (presente alla conferenza stampa) è notevole per due aspetti: perché mostra lavori inediti di Bischof e perché questi sono a colori (a quell’epoca una tecnica relegata al settore pubblicitario). I colori sono «usati da Bischof come mezzo espressivo», ha sottolineato la curatrice, aggiungendo come il fotografo zurighese sia stato uno dei primi a vederne il potenziale e integrarlo nel suo processo creativo.
«Un’esposizione – ha descritto il direttore del Masi, Tobia Bezzola – che mostra una volta di più come Bischof fosse un fotografo dalla natura duplice»: formatosi in accademia (dove assorbe uno spiccato formalismo) e autore di grandi reportage in bianco e nero, con etica "nitida", dove l’umanità e le sue faccende sono protagoniste; lavori che gli valsero la definizione di "fotografo umanista".
"Solo il lavoro svolto in profondità, con impegno totale e con tutto il cuore, può avere veramente valore". La citazione è di Werner Bischof che era ben in chiaro su come andava fatto un reportage, rifuggendo il sensazionalismo e la morbosità che caratterizzavano già ai suoi tempi certa fotografia documentaristica.
Riprendiamo alcune informazioni dal Dizionario storico della Svizzera (Dss). Bischof nasce a Zurigo il 26 aprile del 1916. Il padre Adalbert è imprenditore e pensa per il figlio una carriera in linea coi suoi passi, ma Werner ha tutt’altre aspirazioni. Il giovane è caparbio e convince il padre a iscriverlo alla Scuola di arti applicate di Zurigo, che frequenta dal 1932 al 1936. In quel contesto, segue i corsi di fotografia di Hans Finsler, pioniere della Nuova Oggettività. Percorso che si rivelerà rilevante per la riflessione circa la composizione fotografica.
Diplomatosi, Bischof apre uno studio di grafica: nel 1938 realizza manifesti e lavora come fotografo di moda per la casa editrice Amstutz und Herdeg. Negli anni Quaranta (procedo a lunghi passi) alcune sue fotografia sono pubblicate dalla rivista culturale ‘Du’. Del biennio ’44-’45 sono i primi reportage che pubblica come membro dell’Allianz, l’associazione svizzera degli artisti moderni.
Ma la Seconda guerra mondiale e i suoi strascichi segnano in maniera irreversibile il percorso del fotografo: Bischof pubblica un numero speciale di ‘Du’ con scatti che documentano un’Europa distrutta e in macerie, viaggiando in Francia, Germania (da Berlino a Colonia e Dresda) e Paesi Bassi.
Nel 1949, dopo due anni dalla sua nascita, entra a far parte dell’agenzia fotografica Magnum, insieme ai fondatori Robert Capa, David Seymour, Henri Cartier-Bresson e George Rodger. Negli anni successivi, i suoi reportage furono pubblicati da importanti riviste, fra cui l’americana ‘Life’. Dopo il Giappone (dove si dedica a immagini più estetiche), Bischof compie un viaggio in Indocina come corrispondente di guerra per ‘Paris-Match’. Inviato da Magnum in America Latina, il fotografo raccoglie immagini stupende in Messico, Cile e Perù, dove il suo viaggio finisce bruscamente: muore all’età di 38 anni (è il 16 maggio 1954) in un indicente stradale.
Girovagando per le sale del Masi – la mostra è accompagnata da un prezioso catalogo edito da Scheidegger & Spiess ed Edizioni Casagrande –, salta subito agli occhi la freschezza delle fotografie esposte: le foto sono "nude", ovvero senza vetro affinché nessun elemento sfalsi l’osservazione; vivide a tal punto che alcuni elementi paiono emergere dalla superficie bidimensionale. Foto di una contemporaneità sorprendente. Basti guardare al ritratto del manifesto dell’esposizione ‘Modella con rosa’ (1939) che, a discapito dei circa ottant’anni dalla sua realizzazione, pare fatta ieri. Il viaggio che l’allestimento si propone di far intraprendere al visitatore non è cronologico, ma segue una tripartizione dettata dai tre apparecchi fotografici che Bischof utilizzò fra gli anni Trenta e Cinquanta, presentati nell’anticamera della mostra: una Devin Tri-Color (quella delle lastre di vetro), una Rolleiflex (dal formato quadrato utilizzata fra gli anni Quaranta e Cinquanta) e una Leica, la leggera compagna di viaggio nel ’53.
Sebbene non sia un commento critico, prendo in prestito l’appassionato refrain di Pia (che era Amanda Sandrelli) in ‘Non ci resta che piangere’: "Bella, bella, bella, bella…" (da batticuore).
Per informazioni: www.masilugano.ch.