laR+ Arte

L’arte e la vita di Francesca Alinovi

Giulia Cavaliere racconta la figura della critica d’arte che ha anticipato il presente e, dopo la morte improvvisa nel 1983, è stata dimenticata

Francesca Alinovi
22 maggio 2025
|

È difficile non partire dalla fine, per parlare di Francesca Alinovi. E lo faremo anche qui, ma partendo da quella che possiamo davvero considerare la fine della sua storia. Non la morte, avvenuta il 12 giugno 1983 a Bologna in quello che gli amanti della cronaca nera – o, come si dice oggi, del ‘true crime’ – conoscono come “il delitto del Dams”. E per fortuna neanche l’oblio che dopo quel femminicidio ha avvolto il suo nome e il suo lavoro, una amnesia difficile da spiegare se teniamo conto del crescente riconoscimento della dignità di quelle forme artistiche – come il graffitismo, la performance art, il fumetto – di cui lei per prima intuì e difese il valore, accompagnando la scoperta di artiste e artisti i cui nomi oggi tutti conosciamo, come Keith Haring e Marina Abramović. Partiamo, per raccontare Francesca Alinovi, dalla riscoperta di Francesca Alinovi, critica d’arte militante, implicata e antiaccademica, il cui nome riprende finalmente a essere pronunciato e citato.

E sarà pronunciato anche domani allo Spazio Fervida di Lugano, in via Mola 14, durante la seconda giornata dell’Esplosiva Fest. Dopo l’evento di apertura – oggi alle 18 con le ‘Fervide letture silenziose’ curate da Francesca Benini – venerdì 23 maggio alle 18.30 verrà presentato il libro ‘Quel che piace a me. Francesca Alinovi’, pubblicato nel 2024 da Electa per la collana Oilà dedicata alle figure femminili che nel panorama creativo italiano e internazionale si sono distinte in discipline e mestieri ritenuti “maschili”. A presentare il libro in dialogo con Chiara Fanetti, avremo l’autrice Giulia Cavaliere, giornalista e critica musicale. Alle 21 l’Esplosiva Fest proseguirà con la proiezione di quattro brevi film muti musicati dal vivo dal trio Badalamenti’s Quest, mentre sabato è prevista, dalle 16 alle 19, l’apertura degli atelier.

Giulia Cavaliere, cosa l’ha portata a indagare e approfondire la figura di Francesca Alinovi?

Quando mi è stato chiesto se volevo scrivere un libro per questa collana dedicata a donne il cui lavoro è stato dimenticato, io ho pensato subito a lei. Francesca Alinovi è stata un’autrice che ho letto e che ha fatto qualcosa di molto importante per la mia formazione: la lettura dei suoi scritti è stata importante per me a livello intellettuale, come incontro formativo. Ho quindi sentito il desiderio di invertire la narrazione che la riguardava e che si è concentrata molto di più su quello che le è stato fatto che su quello che lei ha fatto nella vita. Ho voluto portare l’attenzione non sulla sua morte, ma su quello che lei aveva fatto in vita.

Si è parlato di figure femminili in ambienti maschili se non maschilisti. Eppure quello dell’arte sembra, almeno dall’esterno, un settore aperto.

Sembra, ma non è così. In realtà quell’ambiente, e soprattutto il mondo accademico del quale Francesca Alinovi comunque ha fatto parte, è sempre stato invece molto chiuso, gerarchico e problematico.

Che cosa ha fatto Francesca Alinovi che dovremmo ricordare?

Anzitutto ha scritto, e una delle cose che mi interessava raccontare è proprio come scriveva Francesca Alinovi. Nel libro cerco appunto di citare molti momenti della sua scrittura, perché credo che abbia avuto un approccio molto rivoluzionario per quanto riguarda la scrittura e la composizione del testo. A un certo punto lei prende la sua formazione accademica e modifica completamente il modo in cui l’accademia domanda ai suoi discepoli di lavorare. La sua è una scrittura molto contemporanea, molto vivace, molto interessante in termini di prosa e di modo di approcciare l’arte.

Fin dall’inizio del libro la si definisce “critica militante”. Perché?

Militante e assolutamente implicata. Il critico, nella figura di Alinovi, è una figura ibrida e lei stessa è una figura ibrida, sono ibridati i suoi scritti, è ibridato il suo interesse per l’arte, ed è lei stessa una figura ibridata dall’accademia e dalla strada. Il fatto di andare nella strada, sul luogo dell’arte, della nuova arte – per esempio lei ha fatto tantissime ricerche a New York, anche in zone che non erano così praticabili all’epoca, spingendosi nel Lower East Side, ad Alphabet City, nel Bronx. Andava ed era spesso l’unica donna, l’unica bianca in uno scenario molto connotato che poteva anche essere ritenuto in qualche misura pericoloso. La sua idea di militanza e di ricerca è un’idea che fa di lei una critica, ma non la critica immobile che “riceve l’arte” o che semplicemente va a cercarla nei musei, ma la critica che fa ricerca.

In questa sua ricerca militante, quali forme artistiche ha contribuito a portare all’attenzione?

È stato interessante scoprire e rendermi conto di quanta arte diversa avesse trattato: dalle nuove tecnologie al fumetto alla performance art, insomma, tutte forme di rappresentazione e di esperienza artistica che all’epoca non erano così automaticamente riconosciute come forme d’arte. Pensiamo solo al fumetto, a come a Bologna a fine anni Sessanta primi anni Ottanta esplose e come Francesca Alinovi fu una delle prime ad accorgersi di figure come Andrea Pazienza, tutto il mondo di Frigidaire, Igort, un mondo che oggi conosciamo benissimo, ma che all’epoca – e in qualche misura ancora oggi – si faticava a riconoscere come arte o come letteratura. Questa cosa è segno di una lungimiranza eccellente.

Una figura così importante, eppure oggi poco ricordata. Come lo spiega?

Sicuramente è stato un personaggio che ha fatto molta paura, un personaggio non comodo. Sicuramente la sua morte, il suo femminicidio ha portato un velo di scuro nel mondo bolognese, nel mondo legato al Dams, tant’è che a un certo punto non si è più parlato del suo femminicidio ma semplicemente del “delitto del Dams”. La sua figura, il suo soggetto è stato quasi tolto dalla cronaca e al suo posto è stato messo il Dams. Come se con la sua morte ci fosse stato un passaggio, come se occuparsi di lei significasse riconoscerle qualcosa, darle lo spazio che meritava. Evidentemente molte persone hanno avuto altro da fare. Io posso solo dirti che ritengo allucinante che una figura di questa portata per così tanto tempo non sia stata riconosciuta dall’istituzione che le aveva dato uno spazio e nella quale lei ha fatto cose importanti come crescere una generazione di artisti.

Sorprende soprattutto se pensiamo a nomi come quelli di Keith Haring e Marina Abramović, oggi conosciuti anche al di fuori del mondo dell’arte contemporanea.

Certo sorprende e per chi come me non c’era, in quegli anni, è difficile immaginare quali meccanismi abbiano spinto ad esempio a istituire un fondo a lei dedicato e che esiste solo nominalmente. Francesca Alinovi lavorava in accademia, insegnava, era molto amata dai suoi studenti e dagli artisti con cui ha lavorato, ma lavorava molto anche fuori, desiderava lavorare all’esterno del mondo accademico e per questo andava tutti gli anni a New York creando questo ponte tra gli artisti americani e gli artisti italiani, tra la nuova arte newyorkese e la nuova arte italiana, riconoscendo prima di tutti l’importanza e il valore del graffitismo.

Abbiamo dimenticato il nome ma non la sua eredità.

Sì, però l’eredità deve anche avere un nome. Il punto non è solo riconoscere che lei è stata molto brava perché conosciamo quello che ha fatto, ma è anche riconoscere che è stata lei a farlo e che le cose accadono perché ci sono figure come la sua che spingono il passo un po’ più avanti degli altri. Mi colpisce moltissimo il fatto che si sia parlato tantissimo di lei per il delitto e le indagini, il che va benissimo, però allo stesso tempo racconta molto bene come ci poniamo nei confronti dei femminicidi: parliamo di questioni processuali, di indagini, ma molto più difficilmente parliamo delle vittime, di chi e di quello che hanno fatto, anche quando la vittima è una persona che ha fatto quello che Francesca Alinovi ha fatto nella vita, cioè tantissimo.

E per quanto riguarda la sua scrittura, vede un’eredità nel suo modo di scrivere o si è tornati alla scrittura accademica?

Il mondo si è allargato e oggi si legge di arte, di cinema, di musica, di fumetto anche in modi diversi da quello dell’accademia. Io credo che Francesca Alinovi sia stata interessante come è stato interessante un suo amico contemporaneo e fotografo perfetto di quel momento storico, Pier Vittorio Tondelli, uno scrittore di cui sicuramente si parla molto di più di quanto si è parlato di Francesca Alinovi. Sono scritture che hanno impresso una direzione importante che ormai fa parte di noi: chi scrive oggi ha dentro, per automatismo quasi socioculturale, un modo di guardare le cose che deve tantissimo al postmoderno e al post-postmoderno. Direi che Francesca Alinovi, era semplicemente una scrittrice del suo e del nostro tempo. Senza che nessuno gliel’abbia mai riconosciuto.