Due jam session jazz, l’amica Julia Fischer e i Carmina Burana con i cori amatoriali: da domani a domenica, il congedo di Markus Poschner
Sul palco dello Stelio Molo spiccano due Steinway che hanno qualcosa di iconico, come si dice oggi, ma pure di erotico, visti con gli occhi dell’appassionato di pianoforti. Servono per suonare i Carmina Burana, niente di più roboante per chi vuole andarsene da Lugano lasciando il segno. Se la ride Markus Poschner, emette una serie di «bang!» e di «boom!» per definire la maestosità della cantata scenica di Carl Orff, e ne spiega la scelta, tutt’altro che autoriferita: «Tutti i cori conoscono il pezzo, per un ensemble di amatori i Carmina Burana ci sembravano perfetti».
Domenica 8 giugno, cori provenienti da tutta la Svizzera italiana saliranno sul palco della Sala Teatro del Lac per l’ultimo atto di Markus Poschner sul podio dell’Osi, da lui diretta – in qualità di Direttore principale – per dieci anni. Il concerto è inserito nella ministagione Osi a Pentecoste (nata sulla scia del festival Presenza, con Sol Gabetta dal 2022 al 2024) ma è sold out da tempo: ci sono ancora biglietti per le due jam session denominate ‘Markus and Friends’ e per il concerto di sabato.
Di venerdì 6, nell’Agorà del Lac alle 19.30 e in replica alle 21.30, un Poschner pianista, in contesto rigorosamente jazzistico, si accompagnerà a Nguyên Lê alla chitarra, Hugo Siegmeth al sassofono, Harald Scharf al contrabbasso e Bastian Jütte alla batteria e, dall’Osi, i violini Katie Vitalie e Duilio Galfetti, la prima viola Ivan Vukčević, la violoncellista Vanessa Hunt Russell e il contrabbassista Erick Martinez. Di sabato 7, nella Sala teatro alle 20.30, Poschner dirigerà l’Orchestra della Svizzera italiana nelle Danze sinfoniche da West Side Story di Leonard Bernstein, nel Concerto per violino e orchestra di Benjamin Britten, con solista la stella del violino Julia Fischer, e nella ‘familiare’ Seconda sinfonia di Johannes Brahms.
Incontriamo Markus Poschner nella casa dell’Orchestra della Svizzera italiana, lo Stelio Molo, seduti tra le sedie della platea, parti di quel pubblico «sempre diverso» di cui ci parlerà di lì a poco…
Maestro, quali sensazioni prova a pochi giorni dal concerto d’addio? E come se la cava con le partenze?
Dal punto di vista emotivo, non sono pronto per questa attesa, e non solo perché è la prima volta che mi congedo da un’orchestra in qualità di direttore principale. Non so cosa mi attenda, se non che questo gran finale sarà di certo emozionante. Dal punto di vista artistico invece è tutto molto chiaro: abbiamo iniziato a provare domenica scorsa Brahms, Bernstein, il concerto per violino di Britten, un programma di highlights.
Brahms è una costante della sua direzione. Il ‘Rileggendo Brahms’ del 2018 è valso a lei e all’Osi il prestigioso Icma per il ciclo di Dvd…
Potremmo definirci degli esperti, in effetti i miei dieci anni qui sono iniziati con Brahms e con Brahms terminano, come per la chiusura di un cerchio. Devo dire che è tanto tempo che non suoniamo la Seconda sinfonia, ma ogni volta è come un ritorno a casa.
Se questi dieci anni sul podio dell’Osi fossero una sinfonia? O una canzone? Ci basta un titolo…
Una sinfonia in quattro elementi, che potrei chiamare ‘Beyond the Horizon’ (ride, ndr). Quando ho cominciato qui, nel 2015, conoscevo l’orchestra almeno dal 2012; non mi sarei aspettato questo crescendo, davvero notevole. L’apertura del Lac ha avuto la sua importanza, il divenire l’Osi cosa a sé dalla radio anche, è stato come diventare adulti, responsabili del nostro futuro, del nostro destino. L’aver potuto decidere da sé ha avuto ripercussioni positive a livello di carriera artistica, anche internazionale. L’orchestra è cambiata, ha visto l’arrivo di nuovi membri, un ricambio generazionale che negli ultimi dieci anni è stato forse più forte che in altre orchestre, anche solo per casualità: diversi musicisti hanno cominciato insieme e hanno lasciato insieme, soprattutto tra i fiati e gli archi principali. Dieci anni è un tempo lungo per un’orchestra. Quando guardo indietro devo dire che abbiamo costruito una casa del tutto nuova. Questo mi fa felice, mi consente di andare via sereno, perché quella che lascio è una bella casa, e qualcun altro può prenderne le chiavi.
Ha un consiglio da dare a chi verrà dopo di lei?
La prima e unica regola del mio lavoro è quella di non dare mai consigli ai colleghi. In musica, nell’arte in generale, è tutto così personale, intimo, non avrebbe senso. Forse potrei consigliare al nuovo direttore principale di fare tutto in modo differente, perché è importante per ogni orchestra avere input sempre nuovi. L’Osi è così flessibile, esperta e piena di talento che sarà una specie di trasfusione di sangue. E non sono triste: la musica è un grande mondo nel quale è inutile guardare sempre nella stessa direzione.
Parlavo di consigli perché si dice che le canzoni sono come dei figli e l’orchestra è femminile, e alle figlie si tiene in modo particolare…
È vero, ma proprio come per i figli, non è il caso di dare consigli: la vita è la loro e la storia ha dimostrato che i genitori che tentano di controllare i propri figli hanno sempre creato disastri. I figli devono nuotare con le proprie braccia: se mi fanno domande, allora proverò a rispondere, per il resto ‘it’s not my cup of tea’.
Parliamo di jazz?
Ho fatto un progetto un paio di anni fa con un sassofonista. Da quarant’anni è il mio amore segreto. Quello di domani è un progetto speciale per il quale ho invitato solo amici, con alcuni di loro suono da almeno trent’anni.
Quali sono i suoi eroi jazzistici?
Il mio ‘padrino’ è Keith Jarrett, amo di lui l’essere stato a suo agio in più generi musicali, non è mai stato solo bebop, avanguardia, free jazz...
... era solo ‘pianoforte’…
… sì, come Charlie Parker, che quando gli chiesero quale stile stesse mai suonando, visto che il suo modo di suonare era diverso da tutti gli altri, rispose: “Chiamiamolo musica”. Grande influenza su di me ha avuto anche Miles Davis, un genio, un musicista di enorme successo negli anni Sessanta con i suoi due quintetti. Di lui potrei amare anche la sola attitudine come musicista: nel pieno del successo cambiò strada, quando il 99,9% dei musicisti avrebbe continuato nella stessa direzione, per garantirsi il successo. E invece Miles sapeva perfettamente cosa avrebbe significato essere il museo di sé stessi: suonare sempre le stesse cose, quelle che la gente pretende di sentire ogni volta, dagli Stones di oggi o da Paul McCartney, ai quali è sempre richiesto di suonare grandi successi. E invece, per non restare intrappolati nel passato ed evolvere, bisogna sacrificare le proprie hit. Miles Davis ci ha dato questa lezione.
Anche Julia Fischer è tra i suoi amici di lunga data…
Abbiamo frequentato la stessa scuola, ci conosciamo dai ‘teenage years’, anche le nostre famiglie si conoscono bene. È una splendida musicista, che in questo momento si è presa un periodo sabbatico ma ha voluto esserci. In questa Osi a Pentecoste c’è tanta intimità che mi circonda, la stessa che riguarda il lavorare con un’orchestra, un fatto di emozioni, di intensità. In musica non puoi recitare un ruolo, come fanno gli attori nel cinema, devi lasciare che la gente guardi dentro di te. È una situazione a suo modo scomoda e pericolosa, ma è l’unica cosa che puoi fare. Come disse Max Reinhardt, “la musica non è recitare una parte, ma è mostrare sé stessi”.
Tournée europee, sale piene, premi discografici, debutti: cosa porta con sé di più caro da questi dieci anni di Osi?
Ricordo un momento fantastico dopo la pandemia, quando abbiamo rivisto le persone nella Hall del Lac. Commovente. Ma io sono la persona sbagliata per elencare le cose più belle di questi dieci anni, non sono capace di costruire piramidi d’importanza. Il mio modo di pensare è questo: ogni giorno, a ogni prova, tento di creare qualcosa; non so quanto potrò spingermi oltre, ma ci provo con il massimo delle forze. È successo anche oggi pomeriggio con l’orchestra, abbiamo provato a essere ancora più precisi, intensi, più veri. L’obiettivo, la motivazione sono sempre gli stessi.
Devo ammettere che quasi dimentico cosa è successo nei tempi passati: potrà anche esserci stata una standing ovation, ma oggi è un giorno nuovo. Seduto su questa poltrona, dalla parte del pubblico, forse potrei essere capace di creare un ordine di gusto, apprezzare questo o quel solista, questa o quella esecuzione, ma dall’interno è sempre e solo un nuovo inizio. E a volte è difficile, è una piccola tragedia: ammiro chi produce con le proprie mani e il risultato si vede lì, reale, penso allo scultore, al pittore, allo scrittore. Certamente gli Icma sono un premio importante, ma per il musicista, una volta che hai suonato, è andato. Posso pensare alla bontà o meno dell’esecuzione, ma nelle mie mani c’è soltanto aria.
Non amerà le classifiche, ma il primo posto ce lo ha comunicato, il primo concerto in presenza dopo il Covid, un primo posto molto umano…
Il momento in cui sentiamo il senso d’insieme, della creazione di qualcosa insieme, è insuperabile. È paragonabile ai grandi fenomeni pubblici: mi spiace per gli italiani, ma è simile a quanto accaduto per i francesi giorni fa nel calcio, gente impazzita per la vittoria, centinaia di migliaia di persone vicine al loro team, ossessionate dal sentimento di far parte di qualcosa di più grande. Il nostro pubblico non è quello di uno stadio di calcio, ma l’ossessione è quella, anche per la musica. Non esisteremmo se fossimo soli, siamo dipendenti da quel che ci circonda, ne siamo guidati. E non importa quel che stiamo suonando, se è Brahms, Beethoven, Čajkovskij, Stravinskij, se è musica contemporanea o jazz.
E ci ha dato anche l’ultimo posto della classifica…
Il Covid è stato la negazione di tutto questo, seduti a casa, frustrati. Riusciamo a sentirne l’effetto anche oggi, per una certa insicurezza che viene anche dal timore che l’evento si possa ripetere, per il disorientamento dato dalla bolla nella quale alcuni ancora vivono, oggi che tutto cambia così rapidamente, oggi che viviamo circondati da fake news e non sappiamo a chi credere, se al cellulare, alla tv o a un giornale. Tutto è insicuro e per questo è importante restare insieme nel mondo reale.
La connessione è stato uno dei temi portanti dell’Orchestra della Svizzera italiana, che negli eventi griffati ‘be connected’ ha provato a ‘umanizzare’ l’orchestra sinfonica. A che punto dell’umanizzazione si sente di lasciare? Quanto l’Osi è ora connessa?
I progetti ‘be connected’ sono stati tanti, dal Vanilla ai pranzi con l’Osi, con o senza di me. Il significato più profondo di essere un’orchestra va oltre il lavorare intensamente e presentarsi poi davanti a migliaia di persone, all’aprire la porta della Sala Teatro del Lac, fare un bel concerto e dire addio. Abbiamo un impegno con la società, oggi più che in passato, e ha a che fare con i valori, con il rispetto e l’orientamento, davanti a un pubblico che è sempre unico, irripetibile: anche se alcune persone si conoscono, perché hanno lo stesso abbonamento o frequentano le stesse sale da concerto, quella che ti ascolterà sarà ogni volta una nuova comunità.
È una storia emozionante che riflette come uno specchio aspetti del tutto umani come ansia, entusiasmo, gelosia, odio, amore, tutta la varietà del mondo emozionale all’interno del quale, per uno specifico momento, ci sentiamo come un insieme. Per me è misterioso, è miracoloso come tutti piangano o esultino allo stesso momento. È il significato dell’arte e della musica in generale, che agisce direttamente nel cuore più che nella testa. Siamo consci di questa funzione, è questa la nostra responsabilità per la società.