laR+ L’incontro

In riscatto delle voci sopraffatte della ‘montagna nera’

A Lugano per la rassegna ChilometroZero, la dimensione alpina oltre gli stereotipi dello scrittore Martino Giovanettina, vicino alla storia degli ultimi

L’autore, originario dell’Alta Vallemaggia, racconta in particolare in ‘Taccuino dei giorni freddi’ la sofferenza degli esclusi, degli emarginati
(Ti-Press/Sara Giovanettina (Agenzia Kay))
30 giugno 2025
|

C’è un volto della dimensione alpina spesso nascosto nell’ombra che cozza con l’immagine preminente della montagna quale luogo idilliaco, eroico, permeato da quella poetica del sublime che affonda le radici nel Settecento e che la narrazione dominante ha contribuito a delineare. È quello fatto di esistenze segnate da emarginazione, violenze, soprusi, inedia. Esistenze dalla dignità negata e soffocata che lo scrittore Martino Giovanettina, originario di San Carlo in Valle di Peccia e profondo conoscitore di quella realtà che ha contraddistinto un passato non così lontano, cerca di riscattare raccontandole. Lo ha fatto in particolare nel suo libro ‘Taccuino dei giorni freddi’ (Agenzia Kay, 2017) e lo farà mercoledì prossimo, 2 luglio, alle 18.00 in occasione dell’incontro pubblico organizzato dalla Biblioteca cantonale di Lugano dal titolo ‘Montagna bianca e montagna nera. La montagna al di là degli stereotipi’ (modera Luca Saltini) presso la Darsena del Parco Ciani, nel quadro della rassegna ‘ChilometroZero’.

Scarsa considerazione letteraria e storica

«La rappresentazione che trae origine dalla corrente del Romanticismo e, in particolare, dai viaggiatori colti e curiosi del XVIII e XIX secolo è quella di una montagna di cui si evidenziano la maestosità, le forze primordiali, le condizioni difficili, esaltando la resistenza di chi l’attraversa e la vive, le gesta eroiche, la fatica, il coraggio, insomma il mito identitario della società alpina – esordisce Giovanettina, che abbiamo raggiunto per qualche riflessione –. Io però sono più interessato alle storie di quelle persone che hanno, e qui siamo al secolo scorso, sofferto delle condizioni di convivenza forzata, di promiscuità, in un ambiente da altri rappresentato come idilliaco». È una sofferenza, quella alpina di cui parla lo scrittore valmaggese, che ha la caratteristica «non unica ma significativa di essersi manifestata in un contesto isolato, in comunità piccole, in cui più difficilmente si riuscivano a trovare gli strumenti per superarla», rileva.

La montagna nera, dunque, rispetto alla montagna bianca secondo la categorizzazione dell’autore è quella «delle voci sopraffatte che non hanno avuto una cittadinanza a pieno titolo e che, con le debite eccezioni scrittoriali, sono state poco considerate dalla letteratura e dalla storia». Rievocare la memoria umana dispersa di queste persone che hanno sofferto è il modo dell’autore di stare dalla parte degli ultimi, con «un moto di solidarietà tardivo, perché io sono arrivato quando queste sacche di disagio o erano già parte del passato o di un presente che ancora non comprendevo» afferma.

Stupri, incesti, aborti forzati, emarginazione

Tra gli esempi Giovanettina evoca la storia di una donna dei tempi della sua infanzia: «Era considerata la ‘matta buona’ – dice il nostro interlocutore –. Successivamente, scavando nella sua vita, andando a interessarmi di quel che era successo, ho scoperto che c’era una profonda sofferenza senza udienza sociale dietro questa condizione di diversità». Nel libro presenta questa donna col nome di Mafalda, così: “Mafalda coi tuoi capelli dappertutto, disordinati come l’aria d’un temporale. Il fondotinta che scivola via con il sudore, e qualche lacrima. I vestiti troppo colorati, luci di un dancing da poveri cristi. Vendevi biglietti d’auguri per Natale. Con le impronte delle tue dita davanti e dietro. Un bambino ti ha osservata, vecchia Mafalda. Ha visto suo padre offrirti un pasto caldo. Ti ha spiata quando ti trascinavi tra strade e osterie. Parlando da sola, imprecando, cantando. Ti ricorda poco prima del passo d’uscita. Gli occhi stanchi, un vecchio pagliaccio prima di voltare le spalle alla platea. C’è una tomba senza lapide nel cimitero. Sulla croce ci sono le tue iniziali. E un Cristo di quelli che inchiodano a tutti. Con la faccia sofferente, reclinata. Metallo corroso e macchiato dal tempo. Adesso dormi accanto a una strada in salita, dove si cambia la marcia dell’auto (e d’estate i ciclisti cominciano a faticare)”.

Il repertorio di vissuti tragici è ampio, soprattutto quello di donne che hanno subito violenze. «Ci sono i casi, non isolati, di stupri, di violenze sessuali anche familiari, di incesti, di aborti forzati, di esclusione sociale per gravidanze fuori dal matrimonio». Come quello di Kamila, “internata in una casa per ragazze poco di buono. Lasciata a partorire con la sola compagnia della colpa. Separata dalla sua creatura senza poterne sentire il calore (...) Kamila non tornò. Andò in qualche città d’Indentro. Più grande. Smise di scrivere a casa. Non volle più parlare in italiano. Nemmeno più pensare in dialetto. Da vecchia sedeva in un parco a guardare i bambini dell’asilo vicino. Le venivano gli occhi lucidi e si sentiva debole. La sua amica Friedl sapeva perché. Le stringeva la mano come faceva di notte nella casa dei bambini rubati alle ragazze poco di buono”.

Si sa, afferma Giovanettina, «queste cose in qualche modo succedono più o meno da quando c’è il mondo. Nel nostro contesto queste vicende nel loro riaffiorare vanno a intaccare quella patina di purezza e di mitologia che tanto diffusamente ammanta l’immaginario del mondo alpino. O meglio, vanno a completare una storia tramandata in modo parziale – osserva lo scrittore –. Un atto necessario perché raccontare solo una parte di un fenomeno complesso come questo è sempre sbagliato e rischia di trasformare la verità in banali luoghi comuni ‘purificanti’».

Dalla vivacità al (quasi) Default

In realtà la montagna dell’infanzia di Giovanettina – ultimo di sette figli, nato nel 1961 “in un inverno pieno di neve, quando il paese scoppiava di gente, i lavori idroelettrici stavano finendo e il mondo contadino era ben saldo, o almeno così si credeva” – è stata «tutto sommato una montagna relativamente fortunata» ci riferisce. «Come racconto nel mio libro ‘L’odore della brace spenta’ (Agenzia Kay, 2014), era la montagna del bar di mio padre Aurelio, il più frequentato del paese, in cui c’era un gran fermento, tra cui molti operai bresciani, bergamaschi e valtellinesi. Era un mondo con degli aspetti che noi bambini non capivamo, in cui la condizione di diversità e la condizione femminile erano in parte ancora ignorate o accettate come facenti parte del gioco. Un mondo pieno di contraddizioni, di problemi, ma in cui se non altro c’era gente, c’era vivacità, forza».

A scuola a San Carlo Giovanettina frequentava una pentaclasse, ricorda: «Eravamo in 33 allievi. Adesso i bambini in Val di Peccia si contano sulle dita di una mano», definendo quella di allora come «una dimensione letteralmente franata da un punto di vista demografico». C’è a tal proposito una riflessione contenuta nel ‘Taccuino dei giorni freddi’ cui l’autore tiene molto: “Basterebbe spegnere per qualche minuto l’illuminazione pubblica per rendersi conto di cosa rimane di molti villaggi di questa nostra montagna dispersa, che frana a Valle. (…). Vuol dire che siamo in una (quasi) situazione di Default”.

Anche il paesaggio odierno è molto cambiato rispetto a quello della sua gioventù, indica lo scrittore: «Si è inselvatichito, c’è il bosco che ingoia e avanza, nonostante l’agricoltura sia passata dall’essere di sussistenza e diffusa in ogni famiglia a un’agricoltura più ‘professionale’, efficiente, attrezzata, aiutata dallo Stato. L’agricoltura era il mestiere di tutti adesso è il mestiere di pochi. E i pochi, anche se fanno tanto, non fanno miracoli». Colpa del lupo? «Da figlio di uno che è stato anche contadino non posso fingere che il lupo non sia un problema serio per gli agricoltori, per gli alpigiani. È chiaro il loro diritto a difendersi, a chiedere sostegno. Ma attribuire la responsabilità unica dell’abbandono del mestiere di contadino alla presenza del lupo significa non avere letto i dati settoriali dell’Annuario statistico e ignorare che il problema di attrattività del settore primario risale almeno agli anni Cinquanta mentre il lupo è apparso 10-15 anni fa, proprio a causa dell’inselvatichimento crescente. E che per la maggior parte delle persone, cioè quelle che non stanno in montagna, fa parte di una ‘dimensione peluche’ che è esattamente il contrario della ‘dimensione maledetta’ in cui chi deve conviverci lo colloca.

La Vallemaggia dopo ‘la notte delle pietre folli’

Ad avere profondamente segnato quei luoghi e i suoi abitanti è naturalmente stato anche il devastante nubifragio abbattutosi sull’Alta Vallemaggia di un anno fa che ha seminato distruzione e ha portato via la vita di otto persone. Giovanettina sull’accaduto ha da poco pubblicato un libro dal titolo ‘La notte delle pietre folli’ (Agenzia Kay, 2025) che attraverso una decina di quadri riporta al tragico evento che è diventato memoria comune e ha creato per l’appunto un nuovo paesaggio che si presenta come “un memento e una sfida”. Un libro che cerca di inserire la frana anche «nel contesto di un rapporto cosmico tra uomo e natura, tra uomo e mondo minerale». Dopo la distruzione di quella notte è scattata una bella solidarietà, conviene l’autore, «una generosità che però come sempre accade in questi casi si manifesta in vari modi certamente molto apprezzabili ma poi va scemando perché la cronaca reclama sempre altro sangue. Alla fine in qualche modo si rimane soli, i problemi deve risolverli una comunità indebolita, una comunità con meno persone, meno riflessioni, meno energie, meno soluzioni».

Quanto al destino della montagna, Giovanettina non si fa illusioni: «Probabilmente sarà sempre più quello delle residenze secondarie, di un territorio organizzato in loro funzione, con altre poche centinaia di persone stanziali sparse in tanti chilometri quadrati in cui resiste la voglia di vivere in queste specie di isole». Non è un disastro, sottolinea l’autore, lasciando però trapelare un tono di rassegnazione, «dispiace tuttavia che la funzione primaria di creare una comunità che ha un linguaggio, che ha dei rapporti evolutivi, che ha una dinamica sua, sia sostanzialmente impedita o comunque molto frenata dal fatto che non c’è più un numero di abitanti che ne consenta l’esistenza piena».

Spaesamento come condizione esistenziale

Eppure Giovanettina non tornerebbe mai a vivere in quel mondo alpino della sua giovinezza: «Io vivo a Cavergno, dove comincia la verticalità che diventa montagna. Provo un affetto molto forte per le Terre alte, ma non ne ho nostalgia. Probabilmente è perché ho la fortuna di avere almeno tre identità», articola: «Una viene da mia mamma Maria che era cresciuta in Olanda, e l’olandese lo parlavamo anche a casa. Una dall’aver svolto studi universitari a Venezia in letteratura e storia. Si tratta di una città a cui sono molto legato, in cui torno spesso. E poi c’è quella alpina che è quella primigenia. San Carlo è un paese dell’anima, gli voglio bene, amo vederlo, respirare la sua aria, ma non tornerei a stare lassù. Sono insomma fatto di tutte queste identità, e di altre (spesso letterarie), che si sovrappongono e che dialogano tra di loro e che mi fanno provare finanche una sorta di spaesamento che è divenuto una condizione esistenziale. Uno spaesamento non sempre facile da gestire ma di cui non potrei fare a meno». E in fondo questo crogiolo di culture, di andirivieni tra diversi orizzonti, di mestieri – Giovanettina è anche oste a Foroglio e giornalista – è la testimonianza vivente di come la montagna e coloro a cui ha dato i natali possano presentare una complessità e una ricchezza che va ben oltre i luoghi comuni che tendono a definirli.