In ‘Predatori’ racconta i serial killer d'America. ‘Non ho paura degli esseri umani, ma di ciò che non riesco a comprendere’. Il 12 ottobre a Sconfinare
La sua storia personale è un salto dalla finanza al crimine. Non che, a volte, le due cose non coincidano. Sorride Stefano Nazzi, che come giornalista – nell’arco di tempo che sta tra gli articoli sul periodico Class e il suo ‘Predatori. I serial killer che hanno segnato l’America’ (Mondadori), libro uscito lo scorso 9 settembre – si è occupato anche di turismo, spettacolo e tanto altro. «Certo, ho sempre seguito assiduamente la cronaca, l’attualità, fino a occuparmene professionalmente». Re dei podcast a partire da ‘Indagini’, prodotto per il Post (analisi dei casi di cronaca più o meno noti), più tardi voce e volto dei ‘Delitti in famiglia’ di Rai 2 e soprattutto scrittore – ‘Kronaka. Viaggio nel cuore oscuro del Nord (Laterza, 2011), ‘Il volto del male. Storie di efferati assassini’ (Mondadori, 2023), ‘Canti di guerra. Conflitti, vendette, amori nella Milano degli anni Settanta’ (Mondadori) – Stefano Nazzi sarà a Bellinzona il prossimo 12 ottobre ospite dello Sconfinare Festival, nell’incontro condiviso con Giancarlo De Cataldo e intitolato ‘Corpi e ombre: dal noir alla cronaca nera’. I due dialogheranno su come la narrazione criminale, letteraria o audiovisiva, esplora il ‘Corpo’ – tema dell’edizione 2025 del festival bellinzonese – inteso come confine.
John Wayne Gacy, Ed Kemper, David Berkowitz, Dennis Rader, Aileen Wuornos, Ted Bundy. Nomi e cognomi di individui forse più noti con i relativi soprannomi, ovvero (nel medesimo ordine) il killer clown, il figlio di Sam, BTK (acronimo di bind torture kill, lega tortura uccidi), the Florida highway killer (dove ‘killer dell’autostrada’ è da declinarsi al femminile) e il Campus Killer. “Protagonisti malvagi – scrive Nazzi in ‘Predatori’ – di quella che per una strana ironia venne chiamata ‘l’età dell’oro’ dei serial killer negli Stati Uniti, dagli anni Sessanta agli anni Novanta’”. Un campione, quello scelto dallo scrittore, dei 605 assassini seriali catalogati negli anni Settanta, dei 768 negli Ottanta e dei 669 nei Novanta, per quella che l’Fbi definì “una minaccia epidemica”.
Ripercorrere gli anni di questa epidemia – e Nazzi lo fa anticipando ogni storia con il contesto criminologico – significa “incontrare i peggiori assassini seriali dell’epoca moderna”, storie diverse “accomunate però dallo stesso piacere di sopprimere la vita altrui”. Storia antica quella degli assassini seriali, chiusa da Jeffrey Dahmer, il Cannibale di Milwaukee, reso ancor più celebre dalla serie Netflix che ha indignato le vittime per cotanta esposizione. Alcuni di questi predatori, Ted Bundy in testa, godono ancora di una certa popolarità da rockstar, in monografie che tra il giornalistico e l’hollywoodiano trovano posto come ‘classici’ nei palinsesti dei canali tematici legati al crime. Tanto di cappello a Nazzi e al tono del suo racconto, scevro da retoriche e morbosità.
‘Se un giorno nel mio quartiere fanno fuori qualcuno e la polizia guarda nella mia libreria, è certo che mi arrestano’. Stefano Nazzi, perdoni la storia di famiglia, sono parole di una mia zia che negli anni 90 comperava le biografie dei serial killer con profondo imbarazzo. Cosa è cambiato?
Sono ovviamente cambiati i tempi. L’interesse per la criminologia, per le azioni di alcuni di questi personaggi è quanto mai diffuso, soprattutto perché il loro agire è stato studiato nel tempo da psicologi, analisti, storici. Oggi l’avvicinarsi a casi come questi non appare più come una forma di morbosità, quanto un’indagine sull’animo umano e su ciò che gli esseri umani arrivano a fare in determinate circostanze.
Così si spiega la sua ampia digressione criminologica tra un caso e l’altro…
Sì, ho voluto raccontare anche il contesto nel quale si muovevano coloro che hanno tentato di comprendere un fenomeno che sino all’inizio degli anni Settanta non era minimamente considerato. Poi si è cominciato a studiarlo, a trarne dati e conclusioni mediche e anche statistiche.
Quella dei serial killer è una categoria ‘in declino’, scrive lei, per l’evoluzione delle tecniche investigative e perché sono cambiati i parametri. Ancor prima della strage del liceo di Columbine, in molti si spinsero a dire che i serial killer sarebbero stati sostituiti da teenager alla ‘Natural Born Killers’, armati fino ai denti. Ci avevano preso…
È vero, soprattutto negli Stati Uniti che vivono il fenomeno terribile dell’omicidio di massa, giovani che con frequenza entrano negli istituti scolastici e uccidono senza pietà, e le vittime sono spesso giovanissime. Quello del mass murder è un fenomeno tipicamente americano, che per fortuna da noi non esiste. Questo non vuol dire però che il giovane omicida di massa abbia preso il posto del serial killer. Si tratta solo di uno dei tanti fenomeni attraverso i quali la violenza si esprime negli Stati Uniti. Alla base c’è sempre la voglia di esercitare potere sugli altri esseri umani, obiettivi che nel caso degli attacchi di gran parte dei serial killer maschi sono le donne e nel caso dei giovani mass murderer sono i loro coetanei. Alla base c’è comunque l’esercitare un potere decisionale assoluto sulla vita e sulla morte di altre persone.
In ‘Un estraneo al mio fianco’, l’autrice Ann Rule riporta con pregevole distacco il rapporto di conoscenza personale con Ted Bundy, in un libro che è una specie di autobiografia indiretta di uno dei peggiori serial killer della storia americana. Anche lei, Nazzi, riesce a dire tutto il peggio di Bundy con invidiabile equilibrio…
Io credo che il racconto dei fatti di cronaca, anche dei più terribili, debba necessariamente essere ripulito da ogni morbosità, perché la morbosità è aggiungere emotività ulteriore quando non ve n’è bisogno, in quanto sono i fatti stessi a dare emozione ed emotività a una storia. È per questo motivo che nello scrivere cerco di affidarmi sempre a un linguaggio il più asciutto possibile, una scelta che può apparire come distacco, come un cercare di vedere le cose dall’alto.
In una recente serie su Ted Bundy, ‘Falling For a Killer’, vengono intervistate moglie e figlia dell’assassino, una sopravvissuta e amiche o parenti di alcune vittime, nel tentativo dichiarato dell’autrice di raccontare quella storia, finalmente, dal punto di vista delle donne. Perché di libri su Bundy ne sono stati scritti, non uno invece su chi fossero le donne uccise…
Purtroppo è quel che succede sempre. Un esempio italiano è il mostro di Firenze: tutti ricordiamo i nomi delle persone legate alla vicenda – Pietro Pacciani, Gianluca Lotti e tutti gli altri –, e nessuno mai ricorda il nome di una sola delle vittime del mostro. Ricordarle serve a ridare dignità, vita, presenza alle vittime, che non sono soltanto numeri in un elenco. Ognuna di esse è una storia.
Nella vicenda di Bundy fanno peraltro da contraltare le numerose fan che affollarono i suoi processi, uno stuolo di donne giovani e meno giovani pronte ad appoggiare la di lui autopronunciata estraneità ai fatti…
Questa è una cosa inspiegabile che non accade solo per Bundy ma per molti altri criminali, seriali e non. Dinamiche di questo tipo vanno al di là della nostra comprensione. Spesso all’origine c’è una patologia, ma il fascino che certi personaggi esercitano, anche i peggiori, è indubbio.
Tra le storie che ha raccontato in ‘Predatori’, quale la colpisce di più?
Forse quella di John Wayne Gacy, il killer clown, perché ho capito quanto la sua vicenda abbia segnato l’immaginario della paura degli Stati Uniti. Non a caso in ‘It’ di Stephen King, forse il suo libro più celebre, il male ha le sembianze di un clown. La storia di Gacy, uomo rispettato, amato, imprenditore di successo, capace di essere tanto un clown per intrattenere i bambini durante le feste quanto uno spietato assassino, rappresenta quell’incapacità di capire cosa si agiti dentro alcuni esseri umani.
Nella scala delle sue paure, quale posto occupano gli esseri umani?
Non ho paura degli esseri umani. Pur occupandomi di queste storie, riesco sempre a circoscrivere, a capire che gli assassini seriali appartengono sì alle nostre vite, al nostro mondo, ma rappresentano comunque un’esigua minoranza dell’umanità tutta, una percentuale che, se proiettata all’interno delle nostre comunità, non è rilevante in maniera statistica. Certo, lasciano il segno, purtroppo. Sono più spaventato dalle cose che non riesco a comprendere, da quelle spiegazioni che tramite le razionalità e la logica non riesco a raggiungere.
Tanto è grande il suo rigore giornalistico quanto spaventoso, credo, il modo in cui la televisione italiana, e nel caso di quella pubblica la cosa mi pare più grave, tratta i casi di nera, in pieno orario ‘tv dei ragazzi’, come si chiamava al tempo. Questa sovraesposizione del male la fa pensare?
Non posso dire di essere preoccupato, mi limito a una constatazione, perché è così da un po’ di anni: la cronaca ha occupato i palinsesti pomeridiani che prima si occupavano di altre cose, e le storie che vengono presentate vengono di norma trattate come serie a puntate in cui le vittime, i sospettati e le rispettive famiglie diventano più dei personaggi televisivi che non i protagonisti di un’indagine seria e che ha bisogno di tempi e mezzi.
Nel suo libro precedente, ‘Canti di guerra’, lei racconta l’epoca di una criminalità che qualcuno vuole ‘romantica’, che aveva delle regole. Buscetta sosteneva che Riina avesse ‘svilito’ la mafia, uccidendo le donne e i bambini. Era davvero così? È mai esistita una criminalità migliore di altre?
A questa cosa delle regole non ho mai creduto. L’esistenza di una criminalità ‘virtuosa’ è sempre stata una specie di leggenda della quale si sono infarcite alcune bande criminali e alcuni suoi protagonisti. Nella storia che racconto in ‘Canti di guerra’, quella della Milano degli anni Settanta, si uccidevano le donne e gli innocenti. Le presunte regole mi paiono un mascheramento della realtà, uno scarico di responsabilità. Nelle rapine in banca morivano gli anziani entrati a ritirare la pensione, e all’epoca dei sequestri di persona in Italia venivano sequestrati ragazzini o ragazzine che a volte morivano. E non c’è nulla di più feroce di un sequestro di persona.
Come sceglie le storie da raccontare?
Parto dall’idea che la storia possa essere rimessa in ordine. Il racconto della cronaca a volte è così invasivo, così pieno di elementi della quotidianità che si può correre il rischio di allontanarsi dal vero oggetto dell’indagine, che può arricchirsi di illazioni, ipotesi, di elementi riportati o solo percepiti.
Lei è un re dei podcast. Si può dire che a Stefano Nazzi e ai suoi ascoltatori il Covid qualcosa di buono ha lasciato…
Possiamo riconoscerlo come tale. Il podcast è uno strumento che si è affermato in quanto valido in ottica di narrazione, giornalismo e intrattenimento. Covid a parte, sono convinto che si sarebbe affermato comunque. Poi, come sempre avviene, presto o tardi qualcos’altro lo sostituirà.
Meglio se senza un’altra pandemia…
Senz’altro, meglio se senza.
Per Mondadori