In sala il 24 settembre 1945. Rossellini iniziò a girare quando ancora la guerra infuriava nel Nord Italia e la Città Eterna era in balìa dei nazifascisti
“Francesco… Francesco!” urla Pina/Anna Magnani rincorrendo invano il camion sul quale è finito il suo uomo, vittima di una retata dei nazifascisti. “Pina… Pina!” risponde angosciato lui, ma la donna non può sentirlo: una raffica di mitra la fa cadere sul selciato. È una delle scene più famose e celebrate della Storia del Cinema. Certamente meno conosciuto è il fatto che l’indimenticabile sequenza di ‘Roma città aperta’ fu suggerita al regista Roberto Rossellini da una tragedia vera: quella di Teresa Gullace. Incinta di sette mesi, la donna cercava di offrire un tozzo di pane al marito dietro le grate della caserma dov’era finito dopo un rastrellamento, quando un soldato tedesco le sparò un colpo sulla fronte.
Altro episodio realmente accaduto è quello rievocato dalla sequenza che chiude la pellicola: il martirio di don Giuseppe Morosini. Affidato il ruolo ad Aldo Fabrizi (sino allora popolarissimo per le sue interpretazioni comiche, spesso e volentieri accanto a Totò), nei panni di don Pietro Fabrizi rivelò inaspettate doti d’attore drammatico. Il vero don Giuseppe Morosini, denunciato da un delatore che ottenne uno stratosferico compenso – 70mila lire, quando ancora si sognava di poter “avere mille lire al mese” – fu arrestato dalla Gestapo il 4 gennaio del 1944. Sottoposto per mesi a tortura, mantenne un orgoglioso quanto silenzioso contegno. Condannato a morte per l’aiuto fornito alla Resistenza romana, venne fucilato il 3 aprile 1944.
Il film compie oggi 80 anni. Fu infatti proiettato per la prima volta il 24 settembre del 1945 al Teatro Quirino. Rossellini iniziò le riprese quando ancora la guerra infuriava nel Nord d’Italia e la Città Eterna era ancora in balìa dei nazifascisti: fu liberata il 4 giugno del 1944. Prima di giungere a un primo ciak, in una situazione già di per sé poco rassicurante e con le spalle poco coperte sia finanziariamente sia politicamente, Rossellini fu costretto a girare con una pellicola che risultava scaduta; girò su set improvvisati poiché Cinecittà era inagibile siccome occupata da migliaia di sfollati e reclutò parecchi attori improvvisati, letteralmente presi dalla strada; del co-protagonista Francesco Grandjacquet si persero subito le tracce.
Va dato altresì conto di una disputa tra gli sceneggiatori: il fecondo triestino Sergio Amidei (un centinaio di soggetti per Scola, Lizzani, Jean-Pierre Mocky e, tra gli altri, Monicelli) e il pacato semiesordiente Federico Fellini. Quest’ultimo voleva smussare i toni, intuendo nell’aria che per i tedeschi la disfatta era segnata: gli Alleati ormai avanzavano inesorabilmente verso nord e pensava che bastasse aver pazienza, senza più dover sacrificare la meglio gioventù già da tempo sui monti a rischiare la vita nelle fila delle brigate partigiane. Prevalse per così dire la linea dura, però con un compromesso: nessun accenno all’attentato di Via Rasella e alla rappresaglia delle Fosse Ardeatine, ma condanna durissima della ferocia nazifascista.
Nacque il termine ‘Neorealismo’, poi osannato e preso da esempio dagli enfants terribles della Nouvelle Vague. Truffaut, Godard, Chabrol: tutti convinti fautori di un cinéma stylo che, con la leggerezza di una penna, sapesse cogliere la realtà per poi offrircela vista davvero da vicino. All’epoca, tuttavia, più d’uno sollevò qualche perplessità. L’allora sottosegretario al Ministero della Presidenza, un giovane e già emergente Giulio Andreotti, sentenziò che “i panni sporchi si lavano in famiglia”. Non contento, il Divo Giulio fece promulgare nel 1949 una legge che porta il suo nome e che prevedeva (non sappiamo se nel frattempo è stata stralciata) la difesa del cinema italiano dalla saturazione del mercato hollywoodiano, imponendo una tassa sul doppiaggio. Ma pure, nel contempo, che le sceneggiature delle produzioni italiane dovevano essere sottoposte all’approvazione governativa per aggiudicarsi i finanziamenti pubblici. Tra il 1947 e il 1950, Andreotti si avvalse della collaborazione del frate domenicano Félix Morlion (già agente della Cia a Roma negli Anni 50 e poi coinvolto, sia pure marginalmente, nel rapimento di Aldo Moro) per fondare un neorealismo cattolico. Questo doveva combattere il pericolo neorealista, quello vero di Rossellini, De Santis, Visconti, De Sica e Zavattini, colpevoli di dare una rappresentazione negativa dell’Italia all’estero.
Al di là delle polemiche, rimane immortale l’interpretazione di Anna Magnani, che la proiettò davvero in orbita: il cosmonauta Jurij Gagarin inviò il 12 aprile 1961 questo messaggio alla base sovietica di Bajkonur – da dove era partito per il primo volo umano nello spazio –: “Da quassù saluto tutta l’umanità, ma in particolare Anna Magnani”.