Ozzy, Lucherini, Gaza, Kechiche, Jackie Chan e questo pazzo, pazzo mondo: parole (e musica) del direttore artistico del Locarno Film Festival, al via oggi
Sulla scrivania ci sono (sotto) ‘Il cinema di Hong Kong. Spade, kung fu, pistole e fantasmi’ e (sopra) ‘I Am Jackie Chan. My Life In Action’, storia della star hongkonghese attesa sabato al GranRex, evento aperto al pubblico andato sold out rapidamente, come i concerti degli AC/DC. Il primo dei due libri, edito nel 1997, è di Giona A. Nazzaro, il secondo è l’autobiografia dell’attore, 400 pagine stampate nel 1998 e mai tradotte in italiano. «Me lo ha fatto avere la sua agente letteraria – dice il direttore artistico del Locarno Film Festival –, sto ripassando la sua storia». Da un collezionista di vinili come Nazzaro, ce lo aspettiamo oggetto di autografo: «Il libro? Non so, vedremo, non vorrei dare il cattivo esempio. Ma forse lo darò».
Festeggiati i Goonies in Piazza Grande (abbiamo sognato, invano, una celebrazione in grande stile del 50ennale di ‘Ritorno al Futuro’: chissà, magari in futuro), Locarno78 parte oggi con l’Osi a musicare il muto e tutto il resto che seguirà fino al prossimo 16 agosto tra prime assolute, prime relative, red carpet moderato e le più o meno contenute polemiche («Per come la vedo io, la difesa dello schermo mi sembra una manifestazione di attaccamento al Festival, quindi sono convinto che le conversazioni sul tema vadano fatte», dice Nazzaro dell’opera dismessa del Vacchini). E poi ci sono le novità.
Si dice che la gente di spettacolo a un certo punto della vita ami vestirsi di bianco e farsi crescere lunghe barbe da predicatore e tra le novità di Locarno78 c’è senz’altro la barba del direttore artistico. «Una novità involontaria, me ne sono accorto quando era già a un certo punto della crescita. Mi piace lasciarmi agire dalle cose piuttosto che decidere. Nessun intento predicatorio, semmai una cosa alla ZZ Top, o band come Stoner, Doom o Crowbar». Partiamo da qui per dire di un Festival dai temi sempre forti cui Nazzaro concede annualmente sprazzi autoironici e alternativi. Come il rock (alternativo).
Direttore artistico: quella del reverendo Aaron Gilstrom, che in ‘Morte a 33 giri’ definisce i metallari ‘poveri emarginati che cercano di appestare chi gli sta intorno’ non è quella che si dice un’interpretazione da Oscar, però anche il cinema, a modo suo, ha perso Ozzy Osbourne…
Appartengo purtroppo alla generazione che ha iniziato a scoprire i grandi gruppi degli anni 70 con gli ultimi dischi pubblicati. Un amico dell’oratorio aveva una cassetta di ‘Never Say Die!’, che si è rivelata un prestito a lungo termine mai restituito. ‘Never Say Die!’ è il mio disco preferito dei Black Sabbath, nonostante le critiche ricevute. Ho molto amato anche l’Ozzy solista, in lui è incarnato un certo modo di essere. Ricordo che alla stazione ferroviaria di Helsinki comperai la sua biografia e mi chiesi come avesse fatto a sopravvivere agli anni 80. Quando la moglie ha annunciato l’ultimo concerto (quello di Birmingham, città natale, lo scorso 5 luglio, ndr) non ho mai pensato che vi fosse un intento di lucro, bensì qualcosa di più profondo. Ammiro molto la capacità di alcuni di organizzare la propria uscita di scena.
Bowie insegna…
È molto facile morire male. Il fatto che Ozzy abbia tentato fino alla fine di vincere il Parkinson alzandosi dal trono su cui l’avevano messo, l’acutezza della scaletta, il torso nudo di Bill Ward, tutto questo mi ha molto commosso. La sera in cui Ozzy è morto mi trovavo a Roma per il concerto di Nick Cave, avevo fatto tardi e per uscire mi ero messo la prima t-shirt che mi era capitata, una bianca dei Black Sabbath. Poi è arrivata la notizia. Ho seguito il concerto con il magone.
Non vorrei trasformare l’intervista in un ‘In Memoriam’ da Notte degli Oscar, ma di recente è morto anche Enrico Lucherini, forse lontano dalle dinamiche locarnesi…
Lucherini non è affatto avulso da Locarno, è stato un genio non solo perché ha inventato un lavoro che si pensava fosse prerogativa degli americani, ma perché meglio degli americani ha saputo immediatamente calare la sua funzione nel tessuto di quella magnifica commedia dell’arte all’italiana che era il cinema italiano. Lucherini è stato una persona di grande intuizione artistica nel modo in cui è riuscito a diventare un protagonista, è il simbolo di un cinema che apparteneva alla sua fase mitologica, e che francamente un po’ mi manca.
Locarno78, parole sue, è il cinema che ‘avviene mentre il mondo vive convulsioni violentissime’. Visto quel che accade fuori, la presenza quest’anno di un certo numero di commedie è da leggersi come via di fuga?
Tendiamo a vedere alcuni film come commedie perché non sono drammatici, ma può anche dipendere dal senso dell’umorismo: io posso ridere per alcune cose, altre persone non ridono affatto. Posso dire che non abbiamo scelto solo la strada del film d’autore duro e puro, anche perché non volevamo che la selezione fosse un bagno penitenziale. Oggi è difficile ridere perché c’è poco da ridere, ed è facile ridere quando non succede nulla. Il sorriso oggi è una forma di resistenza etica e morale, e insieme un atto di fiducia nel voler andare avanti. Sarei più felice se di commedie ve ne fossero di più, perché non è che si voglia consegnare al nemico proprio tutto. Non è un caso, in questo senso, che i più grandi umoristi siano finiti nei campi di sterminio. Lo stesso Kafka, finito invece in un sanatorio, leggeva agli amici delle disavventure di K. davanti al tribunale o di quelle di Gregorio Samsa davanti allo specchio, e gli amici ridevano. Questo per dire che noi le storie di Kafka le abbiamo sempre lette in un certo modo, però pare che lui e Max Brod (suo amico e biografo, ndr) si divertissero tanto.
Più di un attore comico negli ultimi tempi ha dichiarato di soffrire di crisi del ruolo…
Il problema è che la realtà ha preso una piega inquietante. Viviamo una distopia che poteva essere di Kurt Vonnegut, di Joseph Heller, la manifestazione del potere politico e mediatico ha raggiunto forme di virulenza che solo William Burroughs aveva anticipato, ma il correlato oggettivo di quell’immaginazione è nulla in confronto. Ricordo gli anni di Reagan e della Thatcher attraverso la musica, i Crass, i Dead Kennedys, il punk: le parole dell’ultraliberista Reagan sui dazi da lui definiti inutili e dannosi per l’America paiono quelle di un economista di sinistra di oggi. E stiamo parlando di Ronald Reagan…
‘With Hasan in Gaza’ di Kamal Aljafari, film in concorso, è Locarno che non chiude gli occhi, la rassegna che un tempo qualcuno definì ‘l’avamposto sovietico sul Lago Maggiore’, non fosse che quel ‘sovietico’ oggi avrebbe tutt’altra accezione…
Non si tratta di essere avamposto, ma del fatto che oggi ci troviamo a operare e fare ciò che ci piace in una condizione di privilegio, quello che viene dal poter tornare a casa, avere un tetto sopra le nostre teste e un piatto in cui mangiare. L’incolumità fisica è ancora l’estensione del nostro agire e questo stato va contestualizzato perché non è scontato, né per noi né per gli altri. Detto questo, non si tratta dell’estensione del senso di colpa bianco al lavoro che facciamo, ma semplicemente della possibilità di far passare un messaggio: se qualcuno rifletterà su ciò che abbiamo tentato di fare qui, saprà che io e le persone del comitato artistico ci siamo chiesti come rispondere agli interrogativi della storia senza essere banalmente contenutistici e nell’autonomia del fatto filmico.
Il ritorno di Radu Jude e Ben Rivers a Locarno per presentare qui e non altrove i nuovi film pare un attestato di stima...
Credo stia arrivando a maturazione il lavoro degli anni precedenti. Abdellatif Kechiche, per fare un esempio, non è regista che scelga un luogo dove non si senta capito, allo stesso modo Naomi Kawase non torna a Locarno solo per il fatto di esserci già stata. Per i registi cambiano nel tempo le sfide produttive e noi continuiamo a lavorare a un’idea di Locarno che si colloca tra i primi 5, 7 festival di film al mondo senza giocare la carta della semplificazione, scommettendo sul piacere del cinema e sulla contemporaneità, e su un cinema privo di nostalgia, tutto in avanti. Così la vediamo noi, poi la parola spetta al pubblico, nel senso più rispettoso del termine.
Di Kechiche vedremo un film che dal 2019 nessun festival ha voluto. Il regista porta con sé anche i malumori delle attrici di ‘La vita di Adele’ (2013), sentitesi ‘manipolate’ nelle molte scene di sesso, e le accuse di aggressione sessuale rivoltegli nel 2018 da una donna, poi archiviate. Il potenziale strascico mediatico la preoccupa?
La questione per me è questa. Esistono la sfera dell’autonomia del fatto filmico, quella della responsabilità personale e quella penale, tre sfere distinte che, ovviamente, nella percezione degli individui liberi di trarre le proprie conclusioni possono sovrapporsi. Non lo dico per minimizzare il dolore provocato alle persone coinvolte, per il quale Kechiche deve eventualmente rispondere prima di tutto a sé stesso. Dico questo perché in questi anni si sono fatti grandi passi in avanti sul prendere parola in pubblico invece che attendere nella propria solitudine il rimarginarsi delle ferite e lungi da me, di nuovo, il minimizzare questo percorso di emancipazione. Però tutto questo, nel film di Kechiche, c’entra solo relativamente. Ci sembra il suo film più bello, è intimo e personale, di una leggerezza sconcertante, che pare girato in una mezza giornata. L’aspetto legato alla scoperta della sessualità, dello sguardo, emerge in questo film in maniera molto aurorale, mediterranea, schietta. È un progetto che alla fine ha consumato la vita della persona che l’ha sognato: quante altre volte siamo stati testimoni di progetti così enormi, che poi presentano anche il conto a chi ha osato immaginarli?
È un invito a scindere l’opera dall’autore?
Che dovremmo farne, oggi, di François Villon? Cancellarlo? E di Céline? Ezra Pound? Nemmeno Eliot era uno stinco di santo. Mettiamo al bando anche Burroughs? Questo non significa relativizzare, ma che le persone sono complesse e che forse anche a noi è richiesto un atto di maturità, nel senso che non siamo ragazzini che fanno la raccolta delle figurine e di quella figurina amiamo tutto. Se posso banalizzare questa conversazione: quando Morrissey si dichiarò a favore della Brexit mi si spezzò il cuore; presi i suoi dischi e li nascosi in una parte della mia discoteca dove potessi dimenticarlo. Contestualmente, a Elton John chiesero ragione di quel che aveva detto Morrissey ed Elton John disse che la Brexit sarebbe stata una tragedia per l’Inghilterra. Rimasi positivamente stupito da quelle parole e andai a studiarmi Elton John. Poi morì Sinéad O’Connor e Morrissey disse le uniche cose giuste su di lei. Così rimisi i dischi di Morrissey dove stavano prima, perché evidentemente io e lui su alcune cose abbiamo opinioni diverse.
Tornando a Jackie Chan: crede che al GranRex succederà quel che successe per Shah Rukh Khan lo scorso anno?
Shah Rukh Khan ha dalla sua una fanbase dalla componente fortemente femminile, in questo contesto fa una grossa differenza. Jackie Chan è una specie di leggenda vivente del cinema contemporaneo d’azione, non so se potrà provocare tali manifestazioni di entusiasmo collettivo, ma è sulla cresta dell’onda dalla metà degli anni 70. Me lo auguro.
Anche in questo caso dobbiamo scindere l’attore dalle dichiarazioni su Hong Kong, città che ‘protesta troppo’, o dall’idea che ‘con troppa libertà ci sarebbe più caos’?
Nel suo caso la vicenda è molto articolata, ma anche qui chiamo in causa il passato: Godard si chiedeva come mai detestasse John Wayne in quanto sostenitore di Barry Goldwater (politico statunitense vicino ad ambienti neonazisti, ndr) e piangesse invece come un bambino quanto l’attore sollevava Natalie Wood alla fine di ‘Sentieri selvaggi’. Penso a una figura conflittuale come Fassbinder, che con coraggio nel film ‘Germania in autunno’, per dimostrare che i tedeschi non hanno in realtà mai superato il nazismo, affronta la madre sino a farle dire che Hitler era anche una brava persona. Sarebbe bello se gli artisti che amiamo fossero tutti delle bravissime persone, ma non è così e non lo siamo nemmeno noi. Ciò che mi preoccupa è questo frangente storico polarizzato in cui la conversazione dominante quasi ci impone di prendere posizione molte volte al giorno, tutti i giorni, tutto l’anno. È messo in dubbio il diritto di cittadinanza dell’ambiguità, del chiaroscuro, persino dell’ironia. Grazie al cielo sono italiano e posso ancora spenderla, ma quando vado altrove mi rendo conto di come l’ironia sia ormai una valuta dismessa.
Per finire. Destino di ogni direttore artistico è una sorta di cinematografico calciomercato estivo: come i registi che tornano, anche la sua conferma fino almeno all’80esimo pare un attestato di stima…
Capisco lo spoils system, però soprattutto nei festival del cinema è la continuità che porta risultati, riavviare ogni volta l’intera macchina è problematico. In musica, le band che amiamo ancora sono quelle rimaste uguali, non quelle che continuano a suonare le stesse canzoni ma dei membri originali non è rimasto nessuno. Questo per dire che sono contento di rimanere fino all’80esimo e di portare avanti un ciclo che mi auguro possa servire come base per chi verrà dopo, e se chi verrà dopo vorrà buttare via tutto, fa parte del gioco. Ma è importante anche per il Festival che le persone che guardano a questa rassegna, produttori, distributori e venditori, sappiano che a Locarno esiste una stabilità che permette loro di dire “ok, lì si può fare”.