Pippo Delbono ci racconta del grande artista liberato dal manicomio e del loro connubio sulle scene e nella vita, al centro del film
È difficile scindere Pippo Delbono dalla figura di Bobò. È difficile per chi li ha conosciuti insieme sulle scene. Perché Bobò – all’anagrafe Vincenzo Cannavacciulo –, l’uomo che Delbono ha liberato da una clausura di 46 anni nel manicomio di Aversa, è stato come un secondo respiro, un eco che si è fatto voce propria, del regista ligure. Ha dato corpo spesso pensieri e le parole, ha incarnato in sé, fino a farsi simbolo della compagnia, l’idea di teatro di Pippo Delbono, profondamente personale e poetica, potente, delicata, aperta alle realtà di chi viene emarginato e poi dimenticato. Tossicodipendenti, disabili, migranti. Un flusso vitale che si esprime spesso nella danza e che infatti avvicina l’opera del regista e attore pluripremiato a Pina Baush. Bobò ha dato corpo, ma anche voce, luce e musica, al teatro e alla poetica di Delbono. Il loro è stato un connubio artistico – ma anche di vita – iniziato con lo spettacolo ‘Barboni’ del 1997 a Forlì e poi proseguito in ascesa sulle più grandi scene europee e del mondo. Bobò è morto nel 2019 lasciando un grande vuoto che questo film tenta in parte di colmare.
‘Bobò’ è stato presentato a Locarno ieri in prima mondiale. Ripercorre la storia di un uomo salvato da quel destino che gli ha fatto, un giorno, incontrare il teatro. Ma se di salvataggio vogliam parlare, anche per Delbono è stato così. Sta uscendo da un cupo periodo di depressione dovuta alla recente scoperta della sua sieropositività, e capisce facendo un laboratorio in un manicomio in disuso (“dove i pazienti vagavano persi”) che in Bobò c’è qualcosa di speciale. Sente di essere di fronte a un grande artista. Il loro incontro accende una scintilla. Ognuno accompagna l’altro nella propria vita, in un rapporto che è difficile ricondurre a parole. E infatti, in questo film omaggio sono i filmati d’archivio che raccontano, è la danza di Bobò che narra, Bobò che non parlava ma lanciava gridi lancinanti e sospiri, sempre ammantato da una sorta di malinconica saggezza dal sapore antico, armonico nella sua disarmonia. Un viso che non si dimentica. Incontro Pippo Delbono in un corridoio della Magistrale, in una situazione un po’ scomoda e rumorosa, che a dirla tutta non rende onore al regista, visibilmente stanco.
Per parlare di ‘Bobò’, mi piacerebbe iniziare da un’immagine. Quella di una sedia vuota, rossa, che si vede su un palco. Tu guardi quel palco. A cosa pensi?
Il teatro è qui protagonista, come è protagonista Bobò. Questo uomo, questo piccolo sordomuto analfabeta microcefalo, che ha sconvolto il mondo dell’arte. Io ho cercato di dare testimonianza di questo sconvolgimento. Raccontando la sua storia e la sua poesia. La sua necessità di essere sulla scena, la sua libertà e la sua bellezza.
Necessità di stare sulla scena che è anche tua. Cosa ha rappresentato per te che lo definisci un fratello, un figlio, un padre, un amore, un maestro?
Tutto questo elenco completo, non una sola cosa. Questo incontro è durato 23 anni. Lui viveva a casa mia, non c’era solo il teatro.
Dici di aver avuto bisogno di Bobò per salvarti, quando l’hai incontrato e poi liberato. Si può dire che questo film ti salva un’altra volta?
Sì, è già tanto richiesto, lo presenterò in molti posti. Questo mi dà conferma che era giusto parlare di quest’uomo, a cui sono molto grato. E allora… io spero che a poco a poco mi salvi ancora come ha già fatto una, due, tre volte.
In Italia uscirà in concomitanza con la giornata della salute mentale…
La salute mentale è una parola molto restrittiva nella storia di Bobò. Un grande artista che è rimasto rinchiuso per 46 anni in un manicomio. Quando l’ho portato via ha iniziato a vivere, l’ho visto cambiare faccia, all’inizio aveva gli occhi persi, solitari, ma poi questi occhi hanno cambiato luce. Sembrava che scoprisse tutto per la prima volta. Ed era così in fondo, perché non aveva mai lasciato quel mondo. Anche io ho ricominciato a vivere, ero talmente preso da quest’uomo, che non ho pensato più a me. Pensavo a lui. Quando siamo usciti dal manicomio, un medico mi disse: “Bobò è destinato a essere per sempre un bambino”. All’inizio lui mi aspettava tutte le mattine, poi abbiamo fatto ‘Barboni’, un pezzo storico, iconico. E da lì siam partiti, insieme. Sono successe tante di quelle cose nella nostra vita che questo film avrei dovuto farlo a tappe. Non potevo raccontare tutto. Come i nostri viaggi in Palestina, l’Opera lirica,…
Hai scritto che ogni volta che Bobò si metteva un abito, si trasformava in una persona. Così è successo con Yasser Arafat.
Sì, è successo davvero, hanno scattato una foto di loro due, lui con la kefiah, che è uscita su tutti i giornali. Non sapevi più chi era Bobò e chi era Arafat. Lui si identificava, la sua faccia diventava quella di chi aveva di fronte, in questo caso Arafat. Qualcuno allora scrisse: “Forse sarà Bobò che ci salverà dalla guerra”. Eh sarebbe bello succedesse anche adesso.
Un’altra immagine che mi ha colpito in questo film è quella del volo. Spiccare il volo attraverso i gesti, la danza: lo racconta lui, lo racconti tu. Immagine in netto contrasto con la gabbia iniziale. Ma chi sta dentro e chi sta fuori?
La gabbia è uno dei momenti di non tanto tempo fa, nella mia vita. Io volevo uscirne, ci sono riuscito, un po’. Racconto di un uomo che aveva tutto e che stava molto male. Una crisi esistenziale. Bobò era molto più libero di me. È lui che è volato via, e mi ha lasciato solo. Per 5 anni non riuscivo a parlare di lui, impazzivo. Ma poi ho preso la decisione di fare questo film.
Come mai hai scelto Locarno per la prima del tuo film?
Ci sono stato già diverse volte, ho un rapporto affettivo con questo festival, che mi ha dedicato anche una retrospettiva. Anche Bobò è stato qui! Qui c’è una concentrazione umana veramente unica.