Di fronte alla sconcertante concomitanza fra l’apertura del Festival e le regine del K-Pop ferocemente edonista, Pinello ha scelto le seconde
Accade di essere sorpresi da radicali quesiti esistenziali. Esempio: meglio una fuffa pop infiocchettata a regola d’arte o talune indigeste ambizioni artistiche? Il K-Pop ferocemente edonista o l’alternativa für Kultur di un autoreferenziale Pippo Delbono? Le BlackPink o il Festival? Questo dilemma può insinuarsi in animi insospettabili, anche quello datato di un autentico animale da festival con migliaia di chilometri nelle scarpe come Pinello, il nostro compagno di viaggio nelle ultime rassegne locarnesi. Ebbene, di fronte alla sconcertante concomitanza fra l’apertura del Festival e il concerto delle BlackPink a Milano, concretizzatasi come un segno soprannaturale gravido di implicazioni, Pinello ha infine optato per le regine del K-Pop. Di fronte alla nostra sorpresa, memori delle sue parole più ispirate quando con malcelata commiserazione ci illustrava la missione di qualsivoglia istituzione culturale – “di ogni miseria sarà valsa la pena se permetterà la fioritura di una sola opera d’arte” – ci ha inviato un messaggio accorato.
Pinello si diffonde nell’analisi di un fenomeno che ha saputo assimilare i dettami della cultura pop e del turbo-capitalismo occidentali, da Madonna a Trump, fondendoli con il rigore della propria cultura. E lo fa descrivendo anzitutto il variopinto biscione umano illuminato dal sole della periferia est di Milano, fra vialoni deumanizzati e aerei in decollo, in attesa di poter varcare la soglia del negozio al seguito del tour, in cui una t-shirt vale 60 euro e una giacca 250, mentre va esaurito il feticcio di ogni “blink” che si rispetti, il lightstick, o bastone o martello luminoso. Quale forma di genio è necessaria per indurre milioni di persone a sentirsi complete solo maneggiando un pezzo di plastica a forma di cuore, piazzato a 75 euro cadauno? A suggestionare Pinello, però, sono state soprattutto Jisoo, Jenny, Lisa e Rosé. Il loro spettacolo multimediale di musica, coreografie, video, effetti luminosi e fuochi di artificio ha rivitalizzato la sua retina ipostimolata da anni di live in penombra di Claudio Lolli. Quel mare di cuori rosa ondeggiante sulle teste di 50 mila persone che conoscevano a memoria brani e movenze, quei corpi esibiti nelle loro imperfezioni spesso evidenziate da outfit non ispiratissimi, a dispetto degli impeccabili modelli delle quattro star costruite a tavolino, lo hanno interrogato.
In verità, il fatto che ci si possa sentire tanto liberi in uno show in cui tutto è prestabilito al secondo, in cui il talento è estratto con rigore scientifico dai corpi e dalle voci di quattro ragazze, in cui la complessità dei testi anglo-coreani tende allo scioglilingua e la spontaneità è bandita, ha destabilizzato Pinello. “Ma cosa vuoi”, ha concluso, “dopo anni di boiate in libertà inflitte da Pippi Delbono autocertificati può capitare a chiunque di desiderare le certezze elargite da un prodotto preconfezionato con coreana precisione”. Ma non ho capito se nelle sue parole ci fosse più mestizia o più visionarietà, inconsapevole sottomissione o riconquistata libertà.