laR+ Fuori dal film

Roba da Cannes

‘Mektoub: My Love, Canto due’, di Abdellatif Kechiche è un film. L’aggettivazione viene dopo, le polemiche si estinguono

12 agosto 2025
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Jess prende la forchetta e la affonda nel piatto di spaghetti con il sugo di carne. La usa come un badile, che arraffa, carica food, quindi la caccia in una cavità orale troppo piccola, spinge dentro la materia che non trovava posto e intanto mastica, rumorosamente, dicendo ho fame. Lei è un’attrice di serie tv, le forme perfette arrotondate da una dieta di malessere, l’insolenza il risultato di un’equazione in cui x è uguale a 0, il successo non nutre, sbaraglia.

Irrompe sulla scena con l’arroganza di chi cambia i dazi a piacere, se ne infischia del destino, dei nomi degli altri; forte della potenza economica, dei riflettori puntati su di lei.

Viene voglia di dire che, se una storia così arriva a Locarno, non tutti gli schermi del Vacchini sono in crisi; è una gioia solida, che non evapora, la misuro nel passo deciso verso l’uscita, i cipressi del Fevi che di colpo hanno assunto la forma delle palme.

‘Mektoub: My Love, Canto due’, di Abdellatif Kechiche è un film. L’aggettivazione viene dopo. Le polemiche che hanno adombrato l’autore della vita di Adele, le maldicenze, le giuste considerazioni delle persone per bene si estinguono quasi subito; si è ammaliati da una cinepresa che sa sostare sui volti di questa umanità francese, intesa nel senso più romantico del termine. Francese è chi trova casa in Francia. Sia esso un agricoltore che potrebbe sentire tremare i polsi al suono delle trombe di Marie LePen; una famiglia tunisina che ha nel cous cous l’ariete per l’inserimento, oppure due danarosi americani con villa e Ferrari al seguito. Gli stereotipi si allineano, lì, sullo schermo, ed evaporano subito dopo, forse perché Kechiche ci sa rimanere, in quei movimenti minimi che si fanno portali, sostano su Ophélie mentre prende una pecora per la zampa, la atterra, le inietta la cura per la scabbia. Oppure su Amin, il volto perennemente intimidito, e libero davvero solo quando la macchina fotografica lo protegge da una realtà altrimenti troppa, aumentata. Questo ragazzo che anche nel nome ricorda il buono dei fratelli Karamazov ha bisogno, proprio come il regista, di uno strumento che si interponga tra lui e tutte queste donne e uomini da guardare con amore, vascelli alla deriva, in equilibrio tra i sogni e le miserie, che il film restituisce in forma di danza macabra col destino. Mektoub.

Non è facile capire come Cannes abbia potuto rinunciare a un film così, due ore che da sole fanno schizzare in alto il livello medio del concorso, riconciliano con i siti internet, le prenotazioni, le trappole di chi è costretto a telefono ergo sum. Per un po’ apprezzo persino la grafica trompe-l’œil del cartellone di Locarno, rivivo le garze insanguinate di giovedì sera, esibite da una comunità-piazza schierata per un minuto contro il destino di Gaza, convinta che qualcosa si è mosso.